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Beato Enrico Rebuschini Sacerdote Camilliano

10 maggio

Gravedona (Como), 28 aprile 1860 - Cremona, 10 maggio 1938

Nato a Gravedona (Como) nel 1860, il beato Enrico Rebuschini a 18 anni comincia un cammino vocazionale, che però non viene ben visto dalla famiglia, appartenente alla buona borghesia lombarda. Soprattutto dal padre, il quale però alla fine cede ed Enrico entra 24enne nel seminario di Como. Poi va al Collegio Lombardo di Roma, ma una crisi depressiva lo riporta in famiglia. Il ritrovato equilibrio, che lui attribuisce all'intervento di Dio, lo porta a impegnarsi per i più bisognosi. Il confessore lo orienta, allora, verso i Camilliani, congregazione dedita a malati e sofferenti. Così, dopo un'illuminazione avuta in una chiesa comasca davanti a un quadro del fondatore, Camillo de Lellis, a 27 anni entra in noviziato. Con una particolare dispensa il vescovo di Mantova Giuseppe Sarto (il futuro Pio X) lo ordina sacerdote già due anni dopo. Svolge il suo ministero per dieci anni a Verona e dal 1899 alla morte, avvenuta nel 1938, nella casa di cura San Camillo di Cremona. È beato dal 1997. (Avvenire)

Etimologia: Enrico = possente in patria, dal tedesco

Martirologio Romano: A Cremona, beato Enrico Rebuschini, sacerdote dell’Ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi, che servì in semplicità i malati negli ospedali.


Verso la santità, partendo dalla depressione.E anche ricascandoci,più di una volta. Questo è il camminointrapreso da un ragazzo del Comasco,iniziando da studi liceali con risultatisplendidi, che facevano sognare i suoi.Il padre, soprattutto, si aspettava moltoda lui, secondogenito di cinque figli, ecosì dotato di quanto occorrevaper il successo nelleprofessioni, nell’attività economica.Lui però non avevaquella sicurezza. Da una partesi sentiva chiamato, e quasiobbligato, a operare pergli altri; ma dall’altra lo bloccavanola sfiducia, le pauree poi le delusioni dei primisforzi per trovare una stradadopo gli studi: provava, enon era mai quella giusta. E la via del seminario,che sentiva più sua, gli erabloccata dalla contrarietà del padre.
Ma anche il padre deve rassegnarsi,quando Enrico arriva ai 24 anni. E cosìlui si fa seminarista a quell’età, in Como.Qui fanno presto a scoprire le suedoti, e lo mandano a studiare teologianell’Università Gregoriana di Roma. Riprendelo slancio dei suoi anni liceali,ma poi lo aggredisce una forma gravedi depressione. Perciò, ritorno in famiglia,poi ricovero in casa di cura. La ripresaè lenta, e non certo definitiva. Maquesta sofferenza lo orienta. Gli precisala vocazione. Enrico Rebuschini scopreil mondo degli ammalati e scopre chedovrà vivere con loro e per loro: ancheperché è come loro. Un’illuminazionesimile a quella che nel ’500 ha orientatoil soldato di ventura Camillode Lellis, ricoverato all’ospedaleromano di SanGiacomo degli Incurabilicon una piaga sempre apertain un piede. San Camillolo “cattura” attraverso la frequentazionedegli ammalati,la preghiera, i suggerimentidel suo confessore.
Nel 1887, a 27 anni, Enricova a Verona ed entra comenovizio tra i Ministri degli infermi,denominazione canonica dei Camilliani.Dopo due anni di noviziato, il 14aprile 1889 è ordinato sacerdote damonsignor Giuseppe Sarto, vescovo diMantova e futuro papa Pio X.
Lavora per dieci anni a Verona, insegnandoai novizi dell’ordine e assistendogli ammalati. Nel 1899, eccolo con iCamilliani a Cremona, prima nella casadi cura di via Colletta, poi in quella divia Mantova. Per quasi 39 anni, fino allamorte. Qui sarà economo per 33 anni;e per 19 superiore, in tre distinti periodi.Infermiere, sempre. Fedelissimoagli Ordini et modi prescritti ai suoi dasan Camillo per il rapporto con gli infermi,partendo da “carità” e “diligenza”, eterminando con “piacevolezza” “mansuetudine”,“rispetto”, “onore”. Per EnricoRebuschini, tutti coloro che la malattiacostringe a letto sono i “Signori malati”;vicini a Dio, e perciò potenti, proprioa causa della loro sofferenza. Perlui sono tutti così, nello spirito camilliano,credenti e non credenti. Anzi, perquesti ultimi sa magnificamente associarel’attenzione con la delicatezza.
E tutto questo in mezzo all’andata eritorno della sua depressione. Come èdetto nella documentazione canonicasulle sue virtù in grado eroico: «più voltenel corso della sua vita portò la crocedi grandi sofferenze interiori, che nongli impedirono tuttavia di progredirenelle vie del Signore». E ha continuatosempre a sostenere ogni altro “portatoredi croce”, fino all’ultimo giorno.
Giovanni Paolo II lo ha proclamatobeato nel 1997. Il suo corpo è custoditonella cappella della Casa di cura “SanCamillo” a Cremona.

Autore: Domenico Agasso – Famiglia Cristiana




Enrico Rebuschini nacque a Gravedona (Como) il 28 aprile 1860, secondo di cinque figli in una famiglia della buona borghesia lombarda.
Sui diciott’anni, Enrico, pure gratificato dal successo negli studi, non era un ragazzo sereno e attraversava momenti prolungati di tristezza. Alle prospettive mistiche si univano ansie spirituali. Lui sentiva il richiamo alla vita religiosa, ma era un discorso che al papà dava sui nervi, perché aveva altre mire per il suo Enrico.
Seguirono tentativi di sistemazioni diverse, nelle quali, pure cercando di impegnarsi, di fatto si trovava a disagio perché non aveva scoperta la sua strada e riemergeva il desiderio verso una donazione totale. Dovrà convincersi anche il padre, che alla fine permette al figlio, già ventiquattrenne, di entrare nel seminario di Como. Date le sue qualità, viene inviato al Collegio Lombardo di Roma per frequentare gli studi teologici all’Università Gregoriana.
Riesce lodevolmente negli studi, e stimato dai superiori, eppure Enrico viene ripreso da una crisi più grave di depressione e deve ritornare in famiglia. Si sentiva incerto, diffidava di sé, era anche inceppato nella parola. Ricoverato per un certo periodo in una casa di cura, scriverà dopo anni: "Là Dio operò la mia salute con darmi confidenza nella sua infinita bontà e misericordia".
Il sofferto ricupero viene attribuito dal Rebuschini all’intervento liberante di Dio e di Maria santissima. Ci saranno in seguito delle ricadute, sempre concomitanti con uno stato di affaticamento, ma meno gravi e più brevi. Come per San Camillo la piaga ulcerosa ê stata la via che ho ha condotto agli ammalati, così per il nostro Enrico la crisi lo aiuterà a sensibilizzarsi verso i malati e a orientarsi verso la vocazione camilliana.
Ripreso l’equilibrio psicologico, Enrico si impegna spiritualmente e riprende l’abitudine di visitare i bisognosi, abbinando l’erogazione di sussidi al supporto morale e religioso.
Apprezzando tate sensibilità, il suo confessore lo orienta verso i Camilliani, l’istituto religioso dedicato all’assistenza dei malati. Sarà pregando davanti al quadro di S. Camillo de Lellis, nella chiesa parrocchiale in Como di S. Eusebio, che Enrico, come confidò poi a suo cugino, ebbe come una folgorazione che gli illuminò la strada. II santo è ritratto davanti al Crocifisso, che staccando le braccia dalla croce gli dice: "Continua, l’opera non è tua, ma mia". Enrico ritiene rivolta a sé quell’esortazione e, a 27 anni, decide di presentarsi al noviziato dei Camilliani a Verona.
Con particolare dispensa, ancora durante il biennio di noviziato viene ordinato sacerdote dal Vescovo di Mantova, mons. Giuseppe Sarto (il futuro papa San Pio X), il 14 aprile 1889. Nella festa dell’Immacolata 1891 emette la professione religiosa definitiva.
Per un decennio svolge il suo ministero a Verona, dapprima come vicemaestro e insegnante dei novizi; poi si prodiga come assistente spirituale agli infermi negli ospedali Militare (1890-95) e Civile (1896-99) della città.
Il 1 maggio 1899 p. Enrico arriva a Cremona, nella Casa di cura S. Camillo, dove rimarrà fino alla morte. Per il suo spirito di servizio ai confratelli viene confermato per undici anni superiore della comunità e per trentaquattro anni amministratore-economo.
Quarant’anni di vita e di operosità, in cui senza far rumore, ma con l’eloquenza dell’esempio e della bontà, s’e guadagnato la stima e l’affetto di tutta la città e il soprannome popolare di "Padrino santo".
Il 23 aprile 1938, dopo aver celebrato presso un malato grave, ritorna a casa con un forte raffreddore, cui non da importanza. Due giorni dopo è a letto con broncopolmonite. L’8 maggio chiede l’Olio Santo. Il 10 rende l’anima a Dio. Aveva 78 anni.
Il 4 maggio 1997 viene proclamato beato da Giovanni Paolo II.
La spiritualità del Beato Enrico La santità “feriale”
Richiamando le figure dei beati e dei santi, si esaltano soprattutto le opere e Ia dottrina, quasi costituiscano l’aspetto principale della santità. Ma essi non sono diventati santi per queste manifestazioni esterne.
Il nostro Beato ci svela il segreto della santità "feriale", ossia della santità vissuta nella quotidianità dell’esistenza. Lo scrittore Alessandro Pronzato ha così felicemente sintetizzato il suo identikit: "Uno come noi eppure tanto diverso da noi". Ossia non ha compiuto azioni straordinarie, ma ha vissuto con straordinaria spiritualità la vita di ogni giorno.
Era un religioso mite, umile, silenzioso, sempre disponibile ad aiutare i confratelli, i malati, i poveri, anche quando poteva ben sapere che qualcuno abusava della sua bontà.
"Ovunque è passato — ricorda mons. Giulio Nicolini, vescovo di Cremona —, il beato Enrico ha lasciato il ricordo di una vita religiosa esemplare; una vita vissuta nel silenzio, nella preghiera, nell’umiltà e nella carità, in una parola nella santità quotidiana, concreta, reale, che può essere imitata e praticata da tutti coloro che vogliono impegnarsi nel servizio generoso e incondizionato a Dio e al prossimo, in particolare dei bisognosi e dei malati".
È stato l’uomo della preghiera e del servizio.
La donazione ai malati La maturazione spirituale del nostro Beato è iniziata nella sofferenza per le deprimenti crisi depressive. Anche dopo il sacerdozio ebbe un’altra prova, pare l’ultima, di esagerato senso di colpa. La depressione può rinchiudere la persona in se stessa e provocare comportamenti rigidi e difensivi. Enrico ha valorizzato la prova con umiltà e fiducia in Dio, trasformando il lato debole della sua personalità in particolare sensibilità verso coloro che soffrono e delicata comprensione nel ministero della confessione. Riuscì a realizzare un comportamento sereno e una capacità di donazione straordinaria.
Nei mesi che precedettero l’entrata nell’Ordine dei Camilliani, lasciò scritto nel diario: "Offro per il mio prossimo tutto me stesso e la mia vita". E fu fedele a questa donazione, particolarmente verso i malati, donazione che partiva da una intensa vita di comunione con Dio.
Nel servizio ai malati applicava la raccomandazione di San Camillo: "Servire i malati come fa una madre con il suo unico figlio infermo". Sua caratteristica era il tratto delicato, riguardoso e caritatevole verso tutti. Sempre di umore uguale, sereno, gentile e premuroso.
Per quelli che erano lontani da Dio, faceva pregare e pregava insistentemente lui stesso in cappella. Più volte fu visto sostare in orazione prima di entrare in una stanza dove c’era un malato allergico ad ogni richiamo religioso. Poi, timidamente, si affacciava rivolgendo poche parole, ma per lui parlava il volto, lo sguardo che riflettevano spiritualità convinta e sensibilità fraterna e colpivano salutarmente.
Un simile equilibrio, arricchito da una capacità di relazione autentica, fatta di sensibilità, manifesta la maturazione spirituale.
Sulle orme del fondatore, San Camillo, evidenziava Giovanni Paolo II ai pellegrini accorsi a per la beatificazione del Rebuschini, "egli ha testimoniato la carità misericordiosa, esercitandola in tutti gli ambiti in cui ha operato". Il suo saldo proposito di "consumare il proprio essere per dare Dio al prossimo, vedendo in esso il volto stesso del Signore", lo impegnò in un arduo cammino ascetico e mistico, caratterizzato da un’intensa vita di preghiera, da un amore straordinario per l’Eucaristia e dall’incessante dedizione per gli ammalati e i sofferenti.


Fonte:
www.camilliani.org/beati

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Aggiunto/modificato il 2001-09-28

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