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Beata Giuseppina Nicoli Vergine

31 dicembre

Casatisma, Pavia, 18 novembre 1863 – Cagliari, 31 dicembre 1924

Giuseppina Nicoli nacque a Casatisma, in provincia E DIOCESI? di Pavia, il 16 novembre 1863. Maestra diplomata, entrò tra le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli il 24 settembre 1883. A ventuno anni fu inviata in Sardegna, come insegnante nel Conservatorio della Provvidenza, ma la sua azione spaziò oltre i confini della scuola. Quindici anni dopo venne destinata a Sassari, come superiora (o suor servente, nel gergo vincenziano): anche lì, a dispetto della salute malferma e contro ogni incomprensione, salvo per un breve periodo trascorso a Torino, avviò iniziative di carità indirizzate specialmente verso i ragazzi di strada. Morì a Cagliari il 31 dicembre 1924, per le conseguenze di una broncopolmonite. Fu beatificata a Cagliari il 3 febbraio 2008, sotto il pontificato di papa Benedetto XVI. La sua memoria liturgica ricorre il 3 febbraio, giorno anniversario della beatificazione, mentre i suoi resti mortali sono venerati nella cappella dell’Asilo della Marina a Cagliari.



Giuseppina Nicoli nasce a Casatisma, Pavia, il 16 novembre 1863. Per chiamarla “pan di burro”, a casa, a scuola e tra gli amici, un motivo devono averlo: tutti ammirano la sua dolcezza, la sua gentilezza, la sua predisposizione ad aiutare gli altri.
Sono le stesse doti che trova in lei don Prinetti, animatore della carità a Voghera, che al momento buono le consiglia di entrare tra le “suore cappellone”, cioè le Figlie della Carità di San Vincenzo de Paoli, chiamate così per via del loro copricapo bianco, a larghe tese spioventi, rigidamente inamidate.
Devono avere, come specificava il Fondatore, «per monastero la casa dei malati, per cella una camera d’affitto, per cappella la chiesa della parrocchia, per chiostro le vie della città e le sale degli ospedali, per clausura l’obbedienza, per grata il timor di Dio, e per velo la modestia»: per questo le ritiene adatte alla spiritualità e, soprattutto, alla dirompente carità di questa ragazza di vent’anni, di buona famiglia (il papà è pretore, il nonno materno avvocato), cresciuta insieme ad altri nove fratelli e sorelle.
Dopo il noviziato nella Casa torinese di San Salvario la mandano a Cagliari, dove giunge il 1° gennaio 1885: il suo incarico “ufficiale” è l’insegnamento nel Conservatorio della Provvidenza, ma da subito non le basta.
Già l’anno dopo la città deve fare i conti con il colera e lei è in prima fila ad assistere i malati ed a portar conforto alle famiglie più povere della città, di cui scopre le piaghe più nascoste, in primo luogo l’analfabetismo, che combatte radunando i bambini e cercando di insegnar loro a leggere, scrivere e magari anche a diventar più buoni. Intanto la sua salute comincia a far capricci con il primo sbocco di sangue, che denuncia l’inizio della tubercolosi: non la farà morire, semplicemente la consumerà nei successivi trent’anni.
Dopo quindici anni la vogliono a Sassari, come Suor Servente (cioè superiora) dell’orfanotrofio e qui trova il tempo per mettere in piedi una vorticosa attività di catechesi domenicale che raduna anche ottocento bambini e che si affianca all’attività per i Figli di Maria e le Figlie di Maria, per i malati bisognosi, per le domestiche e per le carcerate.
Nel 1910 la richiamano a Torino come economa provinciale e direttrice del Noviziato, ma dopo appena tre anni devono in gran fretta riportarla in Sardegna perché i suoi bronchi malati hanno bisogno di un clima più mite di quello piemontese.
Rientrata a Sassari deve fare i conti con il clima anticlericale e massone che si sta diffondendo in città e che le procurerà tanti dispiaceri: incomprensioni, malignità, false accuse obbligano la congregazione a trasferirla a Cagliari, al quartiere Marina, la zona dei bassifondi e della malavita, della povertà diffusa e dell’ignoranza dilagante, dove la carità di una suora ha solo l’imbarazzo di scegliere da dove iniziare.
«Quando amiamo, nulla ci pesa, anche una piccola cosa fatta per amore ha grande valore agli occhi di Dio», ripete a tutti e intanto si prende a cuore i ragazzi senza famiglia che popolano il quartiere, “is piccioccus de crobi” (i ragazzi della cesta): sono ragazzi di strada, che vivono di espedienti, perlopiù trasportando nelle loro ceste i bagagli o le compere dei signori; di notte dormono all’addiaccio, avvolti in pezzi di giornali. Li chiama i “Marianelli”, ossia “i monelli di Maria” e prova a restituire loro dignità, offrendo condizioni dignitose di vita.
«Non  mettiamo limiti alla carità verso i nostri fratelli», ripete, ma intanto lei, per il suo modo di farsi tutta a tutti, anche qui è circondata da diffidenza e malignità, quasi un rifiuto della sua persona da parte dei notabili e dall’amministrazione dell’asilo: una ferita che lei si porta dentro, nel più assoluto riserbo e coprendola con la più squisita carità.
«Il segreto per divenire grandi santi è praticare le piccole virtù, facendo tutto bene, nel tempo, nel luogo e nella maniera con cui Dio vuole»: lei semplicemente si consuma di carità e di servizio, fino al dicembre 1924, quando deve mettersi a letto per una broncopolmonite, che la porta alla morte il 31 dicembre. Le danno sepoltura il 1° gennaio, lo stesso giorno cioè in cui 40 anni prima era sbarcata in Sardegna.
Era sua abitudine dire che «per santificare gli altri, bisogna farsi santi, altrimenti si potrà fare strepito, ma vero bene, mai!»: che non sia il suo caso lo dimostra il fatto che già 5 anni dopo inizia il processo di canonizzazione di suor Giuseppina Nicoli, che sfocia nella beatificazione, avvenuta a Cagliari, il 3 febbraio 2008.

Autore: Gianpiero Pettiti
 



Giuseppina Nicoli nacque a Casatisma (Pavia), in una famiglia molto religiosa, il 16 novembre 1863. Crebbe in un ambiente sereno anche se, purtroppo, la morte le portò via alcuni fratelli in tenera età.
La giovane studiò a Voghera e a Pavia, conseguendo con ottimi voti il diploma di maestra e coltivando nel cuore il desiderio di dedicarsi all’istruzione dei poveri. Attratta dal carisma vincenziano, divenne una Figlia della Carità.
Giunse a Torino, nella casa centrale di San Salvario, il 24 settembre 1883. Qualche mese dopo fece la vestizione a Parigi, in Rue du Bac, dove la Madonna, cinquant’anni prima, era apparsa a santa Caterina Labouré.
Aveva solo ventuno anni quando fu inviata in Sardegna che, al tempo, rientrava nella medesima provincia religiosa. Per giungere sull’isola occorrevano tre giorni di viaggio. Il suo primo incarico fu quello di insegnare al Conservatorio della Provvidenza di Cagliari.
Emise i voti semplici cinque anni dopo, nella notte di Natale del 1888. Nel crocifisso che quel giorno le fu donato, mise un pezzo di carta su cui scrisse un pensiero ritrovato poi dopo la morte. Rivolgendosi al Signore, dandogli del “voi”, promise «di volervi sempre fedelmente servire, praticando la povertà, la castità, l’obbedienza e servendo per amor vostro i poveri».
Aveva trenta anni quando le diagnosticarono la tubercolosi, malattia che minò silenziosamente la sua salute per il resto della vita, senza però mai frenare la voglia continua di lavorare per il Signore.
Quando in città scoppiò il colera, suor Giuseppina fu addetta alle cucine economiche ma, passata l’emergenza, diede inizio alla missione che avrebbe contraddistinto la sua vita: istruire i giovani, diffondendo la conoscenza del Vangelo. Cominciò con gli studenti e gli operai che chiamò “Luigini” (protetti da san Luigi Gonzaga).
La comunità di Sassari, nel 1899, necessitava di una superiora (detta suor servente) e la scelta cadde su di lei. Qui conobbe padre Giovanni Battista Manzella, della Congregazione della Missione (anche per lui la causa di beatificazione e canonizzazione è in corso).
L’apostolato di suor Giuseppina fu straordinario: introdusse le suore nel carcere femminile, istituì il primo gruppo giovanile di volontariato, favorì le scuole di catechismo, anche serali o domenicali, che raggiunsero gli ottocento iscritti.
Tanto terreno fertile fu lasciato nel 1910, quando tornò nella capitale sabauda, a S. Salvario, con il compito di coordinare come economa provinciale un centinaio di comunità locali e alcune migliaia di suore. Passò poi, all’altrettanto gravoso compito di “maestra” delle circa sessanta novizie.
Nonostante gli ottimi risultati, il clima freddo di Torino era poco adatto alle sua salute e fu rimandata in Sardegna. I vari cambiamenti le costarono non poco, ma come leggiamo nei suoi scritti: «La vera obbedienza si riconosce per quella semplicità che non cerca i motivi del comando, quella generosità che non fa distinzione tra un comando importante e un desiderio, quell’umiltà che non ha riguardo se non per Dio, quell’allegria che rallegra Dio stesso, quella perseveranza senza cui si è virtuosi solo a metà... Il Crocifisso! Ecco il più bel trattato dell’obbedienza».
Nell’isola le cose erano completamente cambiate, sia nella comunità che nell’amministrazione civica. Da Sassari fu mandata all’Asilo della Marina di Cagliari (agosto 1914). Si era all’inizio della Grande Guerra e nei locali dell’Asilo si allestì un ospedale per i feriti.
Superata l’emergenza suor Nicoli diede vita ad una serie eccezionale di opere: fondò le Damine di Carità che riparavano e cucivano abiti per i poveri, curavano l’assistenza domiciliare del quartiere e la colonia estiva per i bambini rachitici.
Diresse le Figlie di Maria tra cui nacquero numerose vocazioni religiose, fece conoscere in città l’opera della Propagazione della Fede e della Santa Infanzia, aprì il Circolo di S. Teresa, primo nucleo della futura Azione Cattolica femminile cittadina.
Fondò i Giuseppini (protetti da san Giuseppe), ragazzi che provenivano da quelle famiglie borghesi che per pregiudizio impedivano ai figli di frequentare il catechismo con i poveri. Si preoccupò delle giovani che dalle campagne andavano a servizio dei signori della città, le Zitine, (protette da santa Zita); riunì per ritiri spirituali migliaia di operai che lavoravano alla Fabbrica dei Tabacchi. Si interessò delle giovani della borghesia, che chiamò Dorotee (protette da santa Dorotea), tra le quali alcune divennero ottime maestre.
Un’attenzione tutta particolare fu rivolta ai ragazzi di strada, spesso orfani, che presso il porto e il mercato sbarcavano il lunario facendo i facchini. Ne accolse a centinaia senza allontanarli dal loro ambiente, li istruì, preparandoli ad un lavoro dignitoso. Erano conosciuti come i “marianelli”, i monelli di Maria. Quest’opera tanto benemerita le procurò però non poche difficoltà e incomprensioni, anche in seno alla sua comunità.
In quegli anni fu anche coinvolta in una controversia riguardante le competenze e la proprietà dell’Asilo. Con l’avvento del Fascismo, mal volentieri si vedeva la gestione delle suore. Fu proprio grazie a lei che tutto si risolse.
Gli scritti di suor Giuseppina sono preziosi per comprenderne la spiritualità. Leggiamo: «Noi ci chiamiamo Figlie della Carità, il che significa che noi deriviamo dal cuore di Dio. Bisogna dimostrarlo con le opere...». «Noi dobbiamo essere gli Angeli Custodi dei Poveri, e quindi ogni qualvolta essi si indirizzano a noi, dobbiamo accoglierli con bontà e nulla risparmiare per soccorrerli». «Noi apparteniamo a Dio... Per questo, se non indirizziamo a Dio i nostri pensieri, i nostri affetti, le nostre azioni, noi rubiamo ciò che gli appartiene». «La Figlia della Carità non si applica che a consultare i movimenti del cuore del suo Sposo per regolare i suoi».
«Non diciamo: sono sempre la stessa! Noi navighiamo contro la corrente di un fiume. Se non riusciamo ad andare avanti, non diciamo: non faccio niente. Se non facessi niente sarei trasportata via dalla corrente. Se sono sempre qui è perché lotto contro la corrente, mi sostengo, avanzo, mi arricchisco di meriti».
«Signore, nulla io sono davanti a Te! Quando si scende nel proprio nulla, si trova la luce e la Grazia. Se ne esce trasformate... La vera vita spirituale è questo vuoto che l’anima fa in sé con una totale abnegazione: vuoto che è riempito da Dio».
Si contraddistinse sempre per una santa allegria: «Benediciamo sempre il Signore, e serviamolo sempre fervorosamente e allegramente. Il fervore alimenterà l’allegria e l’allegria conserverà il fervore, e gioverà allo stesso tempo alla salute materiale. Oh, l’allegria è un gran rimedio». «La carità ci fa volare, giubilando. Serviamo il Signore allegramente confidando in Lui».
Fu grande la sua devozione mariana: «Fa’ quello che puoi con gioia e tranquillità, ed il resto prega la Madonna che lo faccia Lei stessa. Oh, fanne l’esperienza e mi saprai dire quanto giova affidarsi alla Madonna Santissima. Di qualunque matassa, per quanto intricata, si trova facilmente il bandolo allorché ci si mette le mani». Suor Giuseppina fu guida per molte sue consorelle.
Aveva poco più di sessant’anni quando una broncopolmonite la costrinse a letto. Soffrì, intensificando la sua unione con Dio, senza perdere il buon umore. Anni prima aveva scritto ad una confidente: «Le croci sono sempre preziosi doni di Dio. Tu mi dici che sei un carro rotto... Anch’io sono un carro rotto, ma tu vedessi come sono contenta!».
Un uomo che l’aveva a lungo osteggiata, inginocchiato al suo capezzale di morte, tra le lacrime, chiese perdono ottenendo da suor Giuseppina un sorriso di paradiso. Spirò alle 9 del mattino del 31 dicembre 1924. I funerali manifestarono in modo commovente l’affetto dell’intera città.
Suor Giuseppina fu dichiarata Beata a Cagliari il 3 febbraio 2008. Le sue spoglie sono venerate presso la cappella dell’asilo della Marina, mentre la sua memoria liturgica ricorre il 3 febbraio, giorno anniversario della beatificazione.


Autore:
Daniele Bolognini

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Aggiunto/modificato il 2023-12-14

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