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Servo di Dio Daniele Badiali Sacerdote

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Faenza, Ravenna, 3 marzo 1962 - Acorma, Perù, 18 marzo 1997


Il “don” della sua parrocchia di Ronco, nella Romagna faentina, gli fa per tempo fare esperienza di volontariato, chiedendogli di faticare per il prossimo, per provare la gioia di offrire il suo tempo agli altri e così viene in contatto, tra l’altro, con l’Operazione Mato Grosso: Daniele, però, è un generoso che non si accontenta di amare a distanza o per procura. Così, nel 1984, ventidue anni appena compiuti, parte per fare un’esperienza di due anni a Chacas, in Perù, dove si trova padre Ugo de Censi. Qui, insieme agli altri, impara la strada dell’umiltà, la verifica della vocazione, la correzione e la limatura del carattere: un vero e proprio “noviziato” che lo prepara a scelte definitive ed importanti. Nel  1987 il vescovo gli chiede di rientrare in Italia, per iniziare il percorso di studi nel seminario di Bologna. Daniele sente forte la mancanza del Perù, ma sta imparando cos’è l’obbedienza e come si fa a rispettare i tempi della Provvidenza. Tanto che non gli sembra neppur vero quando vi può ritornare nel 1991, a due mesi dall’ordinazione, come prete “fidei donum”, assumendo la responsabilità della parrocchia di San Luis, sulle Ande; il che vuol poi dire prendersi cura di sessanta paesini, da tempo senza prete, raggiungibili solo a piedi o a cavallo, perché le strade non ci sono. La sua casa diventa subito punto di riferimento per i tanti poveri, continuamente assediata da chi viene “per chiedere viveri, per chiedere medicine, per chiedere, per chiedere, per chiedere... Sono intontito da questi assalti continui, mi è difficile uscire di casa, subito vedo che mi corrono dietro per cercarmi, per chiedere. Non so cosa fare... scapperei di fronte a tutto questo, perché non so dire di sì e sento bene che non posso negargli l’aiuto... sono chiamato a dare via tutto sapendo che domani ricomincio daccapo e devo dare via ancora tutto”. A cominciare dal suo tempo, di cui si lascia volentieri spogliare, al punto da dover ammettere: “Non so più cos’è la quiete, le ore di sonno si accumulano. A volte penso che morirò per non riuscire più a tenere gli occhi aperti dalla stanchezza... che bello morire così!”. Le sue giornate sono vorticosamente vissute “tra feste nei villaggi, ritiri con i ragazzi, confessioni, preparazione alle prime comunioni, oratorio da seguire, lezioni in seminario da fare, senza contare matrimoni, battesimi, funerali. Sono a San Luis solo la domenica per la Messa e poi scappo. Ormai dormo anche sui sassi”.  Agli amici in Italia scrive di non sapere “come trasmettere la sofferenza che provo nel vedere tante pecore senza pastore!!! e come dire la sofferenza che provo nell’accorgermi che Dio conta sempre meno nella vita delle persone che cerchi di educare alla religione!”. Mentre si sente “un prete ai primi passi del cammino dell’amore”, sente anche tutta la fatica del credere, soprattutto a confronto con la fede genuina e semplice dei suoi parrocchiani. Così, mentre gli altri restano affascinati dalla sua “allegria contagiosa” e ammirano in lui soprattutto “la grande fede”, lui confessa di sentirsi “un peccatore, un incredulo in cammino verso il Vangelo”. “Questa scoperta della mia incredulità mi fa stare coi piedi per terra, mi fa soffrire, però non mi toglie il desiderio di sperare nel Signore e nella sua bontà”: così, volando tra un impegno pastorale e l’altro, pur avvertendo il dramma del vuoto e dell’assenza di Dio e “la delusione che questo Dio crocifisso non è quello che la gente cerca”, cerca “di imparare a vivere ciò che Gesù ci ha detto, … imparare a dar via la propria vita…”. Ecco perchè la sera del 16 marzo 1997, mentre torna con i suoi collaboratori dai soliti impegni pastorali e la sua macchina viene fermata da un gruppo di banditi armati che vogliono un italiano in ostaggio per chiedere un forte riscatto a p.Ugo, Daniele non ha un attimo di esitazione: “Tu resta, vado io”, dice ad una volontaria che già sta avanzando verso il gruppo armato. Lo ritrovano due giorni dopo in una scarpata, con le mani legate e finito con un colpo alla nuca e i suoi cristiani non faticano proprio a capire che Daniele è riuscito perfettamente a “dar via la vita” per i fratelli. Come Gesù. E dato che un amore così non si può improvvisare, capiscono anche che diceva sul serio quando insegnava  “a guardare in faccia alla morte, solo così si capisce quale direzione dare alla vita”.  E proprio per questo, il 27 marzo 2010, Faenza si è sentita in dovere di aprire l’inchiesta diocesana per la beatificazione di don Daniele Badiali.


Autore:
Gianpiero Pettiti

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Aggiunto/modificato il 2014-05-15

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