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San Tommaso d'Aquino Sacerdote e dottore della Chiesa

28 gennaio (e 7 marzo)

Roccasecca, Frosinone, 1225 circa – Fossanova, Latina, 7 marzo 1274

San Tommaso d'Aquino rappresenta una delle colonne del pensiero filosofico occidentale e offre l'esempio di un ricercatore che ha saputo vivere intensamente ciò che stava al centro dei suoi studi: il messaggio di Cristo. Per questo egli è ancora oggi un testimone profetico, che ci ricorda come parola e azioni debbano sempre corrispondere. Tommaso è noto per la sua monumentale opera teologica e filosofica, in particolare per quel prezioso lavoro di intessitura tra i classici del pensiero e la tradizione cristiana. La sua eredità di fatto è diventata parte integrante del patrimonio di fede e ha contribuito a modellare il volto della Chiesa. Nato nel 1224 a Roccasecca (Frosinone) e divenuto domenicano nel 1244, studiò a Montecassino, Napoli, Colonia, Parigi dove cominciò anche l'impegno dell'insegnamento. Morì a Fossanova nel 1274.

Patronato: Teologi, Accademici, Librai, Scolari, Studenti

Etimologia: Tommaso = gemello, dall'ebraico

Emblema: Bue, Stella

Martirologio Romano: Memoria di san Tommaso d’Aquino, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e dottore della Chiesa, che, dotato di grandissimi doni d’intelletto, trasmise agli altri con discorsi e scritti la sua straordinaria sapienza. Invitato dal beato papa Gregorio X a partecipare al secondo Concilio Ecumenico di Lione, morì il 7 marzo lungo il viaggio nel monastero di Fossanova nel Lazio e dopo molti anni il suo corpo fu in questo giorno traslato a Tolosa.
(7 marzo: Nel monastero cistercense di Fossanova nel Lazio, transito di san Tommaso d’Aquino, la cui memoria si celebra il 28 gennaio).

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Un ragazzo taciturno
La gloria maggiore doveva essere un giovane piuttosto robusto, proveniente dal centro Italia: si chiamava Tommaso, nato nel 1225, dai Conti d’Aquino nel castello di Roccasecca, non lontano da Montecassino. Proprio tra i “pueri oblati” era stato portato Tommaso, di 5 anni, perché studiasse e diventasse, crescendo, non solo monaco di san Benedetto, ma abate, onorando la sua famiglia nobile e ricca.
Ma il ragazzo, quando poté disporre di sé, uscì dal monastero, diciottenne, e tornò in famiglia, per iscriversi all’università di Napoli, a studiare Filosofia. Era già un innamorato di Gesù, così che presto, attraverso lo studio condotto con serietà nell’illibatezza della sua vita verginale, gli nacque la vocazione domenicana. Lui era nobile, mentre l’Ordine di san Domenico, come quello di san Francesco, era un Ordine “mendicante”, senza alcuna nobiltà.
Così i parenti pensarono di impedirgli di seguire la sua strada. A Montefiascone c’è una cappella dove Tommaso sfuggì dalle mani dei fratelli che volevano acciuffarlo nella sua fuga verso lo Studio di Parigi, dove lo attendevano Maestri e confratelli domenicani. Pensando a questo “scontro”, Tommaso scriverà una pagina sulla nobiltà di tutti gli uomini, perché creati da Dio e redenti da Gesù suo Figlio fatto uomo, senza attendere la dichiarazione dei diritti dell’uomo, fatta dai superficiali e spesso violenti “enciclopedisti” del Settecento.
Sfuggendo ai suoi inseguitori, Tommaso valicò le Alpi e giunse a Parigi. Trent’anni dopo i Maestri delle Arti di quella città potranno vantare che «omnium studiorum nobilissima parisiensis civitas» (Parigi, nobilissima città di tutti gli studi) era stata la maestra del Dottore Angelico, la quale «prius ipsum educavit, nutrivit et fovit» (= per prima lo educò, lo nutrì e lo promosse).
Ormai i Domenicani avevano espugnato lo “Studium” parigino: sulla cattedra di Teologia sedeva come maestro il domenicano Alberto Magno, che intuì subito la capacità intellettuale, anzi il genio, di Tommaso d’Aquino ancora studente. Fu proprio Alberto, che sentendolo chiamare dai compagni “il bue muto” per la taciturnità – colma di Dio, e di pensiero terso come il cielo azzurro – disse, presago: «Un giorno i muggiti della sua dottrina saranno uditi in tutto il mondo».
Poco più che ventenne, Tommaso fu ordinato sacerdote e sperimentò il Paradiso, quando ebbe Gesù-Ostia tra le mani, lui che era e sarà sempre più un’anima grandissima proprio perché eucaristica. Sarà lui a scrivere la Messa e l’Ufficio divino del Corpus Domini, quando papa Urbano IV, nel 1264, con la bolla Transiturus estese la festa a tutta la Chiesa.

“La Sapienza più preziosa”
La sua fu vita di preghiera, di meditazione e di studio tutta incentrata in Gesù, come l’Unico della sua giornata terrena. Vita di insegnamento, secondo l’essenza dello spirito dell’Ordine: “Contemplari, contemplata aliis tradere” (= contemplare Dio, trasmettere, comunicare agli altri Dio e le realtà di Dio contemplate). Questo però non vuol dire vita tranquilla.
La sua battaglia contro gli errori insidiosi, le tendenze pericolose, contro le dottrine accondiscendenti all’eresia – l’eresia è sempre la gnosi, antica o moderna che sia – sempre latente quando non è aperta, comunque sempre minacciosa, non ebbe mai tregua.
Quando saliva in cattedra, portava con sé una mela, la mostrava agli studenti e chiedeva: «Che cos’è questa?». Qualcuno sorrideva, ma si rispondeva: «Una mela!». «Va bene – ribatteva Maestro Tommaso –, ma chi non fosse d’accordo, esca dall’aula». Non era una battuta per ridere, ma l’affermazione che la sua filosofia parte da ciò che è, dall’ente che, prima di tutto, esiste e che può essere conosciuto dalla mente umana.
Così Tommaso definisce la Verità: «Adaequatio intellectus et rei», «corrispondenza dell’intelletto alla realtà». Insomma, una filosofia dell’essere, la filosofia pertanto perenne, la filosofia del buon senso.
Tutto qui? Ma è cosa grandissima: i sofisti prima di Tommaso e dopo Tommaso negano che si possa conoscere la realtà nella sua essenza, ma si conoscerebbe solo “il pensiero”, “il pensabile”, quindi ognuno ha “la sua” verità, pensa ciò che gli pare e gli piace. È una conoscenza umana separata dall’essere, che si allontana dal reale e pertanto da Dio: sofisma e gnosi.
Così attorno alla sua cattedra, come contro uno scoglio, si abbatterono non le ondate della persecuzione o della ribellione, ma gli errori, le eresie che sono le cose più ostinate, più insistenti e più logoranti, che in breve tempo o alla lunga rendono ciechi. Serio, sereno, silenzioso, sempre più lucido di mente, di analisi e di sintesi. Maestro Tommaso li confutava alla luce della ragione, illuminata dalla fede. Così molto presto, Alberto Magno, già suo maestro, lo chiamò «splendore e fiore del mondo».
Intelligentissimo, intuitivo come mosso da una luce superiore, il suo pensiero non era fatto di lampeggiamenti fuggevoli, e di geniali impennamenti, ma come uno specchio limpidissimo, ravvolgeva la luce della Verità (studiava e contemplava) e la trasmetteva agli altri (insegnava, predicava) in una sintesi perfetta di contemplazione e predicazione. Tutto con tranquillo fulgore. Tramite lui, la Verità si presentava con evidenza, che è appunto «fulgor veritatis consensum mentis rapiens» (= lo splendore, la chiarezza della verità che conquista, rapisce il consenso della mente).
Immerso nella riflessione, nello studio della Verità, mentre stava su una nave, non avvertì la burrasca, mentre una notte con la candela in mano, non sentì il bruciore della fiamma, sulla mano. Un vero puro di cuore, Dio lo aveva liberato dall’amor proprio e dall’impurità, consentendogli di vedere Dio, secondo l’evangelica beatitudine.
In fondo il suo studio, il suo magistero, nelle università di Parigi e d’Europa, era rivolto a Gesù Cristo: tutto doveva servire a conoscerlo di più, a fondare la sua conoscenza, a stabilire i preambula fidei (i preliminari della Fede), per amarlo di più, per farlo amare dai semplici e dai dotti, dalla gioventù studiosa d’Europa, dai candidati al titolo accademico, dagli apostoli del suo Ordine e degli altri Ordini religiosi.
Mai sazio di sapere, insaziabile di amare Dio e il Figlio suo Gesù Cristo e di farlo amare, dilatava fino all’ultima falda, fino all’incredibile, la sua indagine. “Ruminava” fino a ridurre tutto al “cibo essenziale della Verità”, che in fondo è Gesù solo.
«Maestro – gli domandarono un giorno i suoi allievi, tornando da una passeggiata –, guardate quanto è bella Parigi. Vi piacerebbe essere il suo signore?». Rispose Maestro Tommaso: «Preferisco le Omelie di san Giovanni Crisostomo sul Vangelo di Matteo. Non basta tutta Parigi a pagarle».
Alla destra della sala capitolare di Santa Maria Novella a Firenze, una celebre pittura rappresenta il trionfo della Sapienza. Nel mezzo dell’affresco, san Tommaso è seduto in trono con un gran libro aperto sul petto. La Sapienza di cui l’affresco celebra il trionfo, si è raccolta in maggior abbondanza in lui, il “Dottore Angelico”, che mostra non un suo libro ma quello della Sapienza stessa alle pagine dove si legge: «Ho desiderato l’intelligenza e mi è stata data; ho invocato e lo spirito della Sapienza è venuto in me. L’ho preferita ai regni e ai troni e ho stimato la ricchezza un nulla a confronto della Sapienza».

La “Summa” come poema

Tommaso è il santo di questa intelligenza: la sua dottrina si regge sul primato dell’intelletto, che è la condizione stessa dell’amore. Solo un essere intelligente è capace di amore. «Quello che vi è di più perfetto nell’uomo è l’operazione dell’intelligenza – dice Tommaso nel primo trattato della sua Summa Theologiae (il suo capolavoro, ma tutto è capolavoro in Tommaso) – per cui la beatitudine di un essere dotato di intelligenza consiste nell’intelligenza stessa, nel conoscere».
Dante ha espresso questa affermazione di Tommaso nei suoi mirabili versi «Luce intellettual piena d’amore; / amore di vero ben pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolore». La chiave di tutta la Summa – ossia la costruzione più mirabilmente pensata e connessa –, è proprio in questa intelligenza che è letizia, perché è la gioia di ogni essere dotato di intelligenza.
Così le controversie, le discussioni, le insidie quasi non hanno lasciato traccia nella Summa. Anzi, ogni controversia, ogni discussione, ogni insidia è diventata come il materiale da costruzione, nel sillogismo tomistico. Ne risulta che la Summa è come un poema, con un ritmo costante e tranquillo. Ogni verità è discussa, messa in dubbio, provata e infine definita attraverso quelle luminose strofe dei “videtur” (sembra), dei “sed contra” (in contrario), infine dei “respondeo” (rispondo) e delle “soluzioni”.
Proprio questo “poema”, dove l’intelligenza è illuminata dalla fede e dalla grazia, depose in favore della sua santità. Giunto alla morte non ancora cinquantenne, il 7 marzo 1274, egli aveva dichiarato che “a confronto di quanto aveva visto [= il mondo di Dio], le sue opere gli sembravano solo vile paglia”. Ma quali non potevano essere le sue virtù eroiche? Il Crocifisso stesso aveva elogiato la sua opera dicendogli: «Hai scritto bene di me». Nessuno negava la sua umiltà, la sua angelica purezza, la sua obbedienza, la sua povertà, il suo spirito di semplicità, di infanzia nello spirito. Era stato un eccellente cattolico, un ottimo religioso, ma questo non appariva sufficiente a decretargli gli onori degli altari. Si diceva che “il bue muto” era rimasto muto anche dopo la sua morte, astenendosi dal fare strepitosi miracoli.
Ma il papa Giovanni XXII, volendolo canonizzare, alle obiezioni canoniche rispose: «Tommaso ha illuminato la Chiesa più di tutti gli altri Dottori e un uomo fa più profitto sui suoi libri in un solo anno, che non sulle dottrine degli altri per tutto il tempo della sua vita».
Anche oggi la luce da cui può partire una nuova primavera della Chiesa, non viene dalla cosiddetta “aria fresca” del pensiero moderno, che subito si rivela gelida e distruttiva di ogni verità e di ogni frutto, ma solo dal Cristo accolto dalla filosofia e dalla teologia perenne di Maestro Tommaso. Così insegna il Magistero della Chiesa: citiamo tra tutti quelli che gli hanno reso omaggio, i Pontefici Leone XIII, san Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, che lo hanno definito “garante della Fede cattolica”.

Autore: Paolo Risso
 


 

Quando papa Giovanni XXII nel 1323, iscrisse Tommaso d’Aquino nell’Albo dei Santi, a quanti obiettavano che egli non aveva compiuto grandi prodigi, né in vita né dopo morto, il papa rispose con una famosa frase: “Quante proposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece”.

E questo, è il riconoscimento più grande che si potesse dare al grande teologo e Dottore della Chiesa, che con la sua “Summa teologica”, diede sistematicamente un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana.

Origini, oblato a Montecassino, studente a Napoli
Tommaso, nacque all’incirca nel 1225 nel castello di Roccasecca (Frosinone) nel Basso Lazio, che faceva parte del feudo dei conti d’Aquino; il padre Landolfo, era di origine longobarda e vedovo con tre figli, aveva sposato in seconde nozze Teodora, napoletana di origine normanna; dalla loro unione nacquero nove figli, quattro maschi e cinque femmine, dei quali Tommaso era l’ultimo dei maschi.
Secondo il costume dell’epoca, il bimbo a cinque anni, fu mandato come “oblato” nell’Abbazia di Montecassino; l’oblatura non contemplava che il ragazzo, giunto alla maggiore età, diventasse necessariamente un monaco, ma era semplicemente una preparazione, che rendeva i candidati idonei a tale scelta.
Verso i 14 anni, Tommaso che si trovava molto bene nell’abbazia, fu costretto a lasciarla, perché nel 1239 fu occupata militarmente dall’imperatore Federico II, allora in contrasto con il papa Gregorio IX, e che mandò via tutti i monaci, tranne otto di origine locale, riducendone così la funzionalità; l’abate accompagnò personalmente l’adolescente Tommaso dai genitori, raccomandando loro di farlo studiare presso l’Università di Napoli, allora sotto la giurisdizione dell’imperatore.
A Napoli frequentò il corso delle Arti liberali, ed ebbe l’opportunità di conoscere alcuni scritti di Aristotele, allora proibiti nelle Facoltà ecclesiastiche, intuendone il grande valore.

Domenicano; incomprensioni della famiglia
Inoltre conobbe nel vicino convento di San Domenico, i frati Predicatori e ne restò conquistato per il loro stile di vita e per la loro profonda predicazione; aveva quasi 20 anni, quando decise di entrare nel 1244 nell’Ordine Domenicano; i suoi superiori intuito il talento del giovane, decisero di mandarlo a Parigi per completare gli studi.
Intanto i suoi familiari, specie la madre Teodora rimasta vedova, che sperava in lui per condurre gli affari del casato, rimasero di stucco per questa scelta; pertanto la castellana di Roccasecca, chiese all’imperatore che si trovava in Toscana, di dare una scorta ai figli, che erano allora al suo servizio, affinché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi.
I fratelli poterono così fermarlo e riportarlo verso casa, sostando prima nel castello paterno di Monte San Giovanni, dove Tommaso fu chiuso in una cella; il sequestro durò complessivamente un anno; i familiari nel contempo, cercarono in tutti i modi di farlo desistere da quella scelta, ritenuta non consona alla dignità della casata.
Arrivarono perfino ad introdurre una sera, una bellissima ragazza nella cella, per tentarlo nella castità; ma Tommaso di solito pacifico, perse la pazienza e con un tizzone ardente in mano, la fece fuggire via. La castità del giovane domenicano era proverbiale, tanto da meritare in seguito il titolo di “Dottore Angelico”.
Su questa situazione, i racconti della “Vita” divergono. Alcuni dicono che papa Innocenzo IV, informato dai preoccupati Domenicani, chiese all’imperatore di liberarlo e così Tommaso tornò a casa; altri dicono che Tommaso riuscì a fuggire; altri che Tommaso, ricondotto a casa della madre – la quale non riusciva ad accettare che un suo figlio facesse parte di un Ordine “mendicante” – resistette a tutti i tentativi fatti per distoglierlo; dopo un po’ anche la sorella Marotta, passò dalla sua parte e in seguito diventò monaca e badessa nel monastero di Santa Maria a Capua. Infine anche la madre si convinse, permettendo ai domenicani di far visita al figlio e, dopo un anno di quella situazione. lo lasciò finalmente partire.

Studente a Colonia con s. Alberto Magno
Ritornato a Napoli, il Superiore Generale, Giovanni il Teutonico, ritenne opportuno anche questa volta, di trasferirlo all’estero per approfondire gli studi; dopo una sosta a Roma, Tommaso fu mandato a Colonia dove insegnava sant’Alberto Magno (1193-1280), domenicano, filosofo e teologo, vero iniziatore dell’aristotelismo medioevale nel mondo latino e uomo di cultura enciclopedica.
Tommaso divenne suo discepolo per quasi cinque anni, dal 1248 al 1252; si instaurò così una feconda convivenza tra due geni della cultura; risale a questo periodo l’offerta fattagli da papa Innocenzo IV di rivestire la carica di abate di Montecassino, succedendo al defunto abate Stefano II, ma Tommaso che nei suoi principi rifuggiva da ogni carica nella Chiesa, che potesse coinvolgerlo in affari temporali, rifiutò decisamente, anche perché amava oltremodo restare nell’Ordine Domenicano.
A Colonia per il suo atteggiamento silenzioso, fu soprannominato dai compagni di studi “il bue muto”, riferendosi anche alla sua corpulenza; s. Alberto Magno venuto in possesso di alcuni appunti di Tommaso, su una difficile questione teologica discussa in una lezione, dopo averli letti, decise di far sostenere allo studente italiano una disputa, che Tommaso seppe affrontare e svolgere con intelligenza.
Stupito, il Maestro davanti a tutti esclamò: “Noi lo chiamiamo bue muto, ma egli con la sua dottrina emetterà un muggito che risuonerà in tutto il mondo”.

Sacerdote; Insegnante all’Università di Parigi; Dottore in Teologia
Nel 1252, da poco ordinato sacerdote, Tommaso d’Aquino, fu indicato dal suo grande maestro ed estimatore s. Alberto, quale candidato alla Cattedra di “baccalarius biblicus” all’Università di Parigi, rispondendo così ad una richiesta del Generale dell’Ordine, Giovanni di Wildeshauen.
Tommaso aveva appena 27 anni e si ritrovò ad insegnare a Parigi sotto il Maestro Elia Brunet, preparandosi nel contempo al dottorato in Teologia.
Ogni Ordine religioso aveva diritto a due cattedre, una per gli studenti della provincia francese e l’altra per quelli di tutte le altre province europee; Tommaso fu destinato ad essere “maestro degli stranieri”.
Ma la situazione all’Università parigina non era tranquilla in quel tempo; i professori parigini del clero secolare, erano in lotta contro i colleghi degli Ordini mendicanti, scientificamente più preparati, ma considerati degli intrusi nel mondo universitario; e quando nel 1255-56, Tommaso divenne Dottore in Teologia a 31 anni, gli scontri fra Domenicani e clero secolare, impedirono che potesse salire in cattedra per insegnare; in questo periodo Tommaso difese i diritti degli Ordini religiosi all’insegnamento, con un celebre e polemico scritto: “Contra impugnantes”; ma furono necessari vari interventi del papa Alessandro IV, affinché la situazione si sbloccasse in suo favore.
Nell’ottobre 1256 poté tenere la sua prima lezione, grazie al cancelliere di Notre-Dame, Americo da Veire, ma passò ancora altro tempo, affinché il professore italiano fosse formalmente accettato nel Corpo Accademico dell’Università.
Già con il commento alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, si era guadagnato il favore e l’ammirazione degli studenti; l’insegnamento di Tommaso era nuovo; professore in Sacra Scrittura, organizzava in modo insolito l’argomento con nuovi metodi di prova, nuovi esempi per arrivare alla conclusione; egli era uno spirito aperto e libero, fedele alla dottrina della Chiesa e innovatore allo stesso tempo.
“Già sin d’allora, egli divideva il suo insegnamento secondo un suo schema fondamentale, che contemplava tutta la creazione, che, uscita dalle mani di Dio, vi faceva ora ritorno per rituffarsi nel suo amore” (Enrico Pepe, Martiri e Santi, Città Nuova, 2002).
A Parigi, Tommaso d’Aquino, dietro invito di s. Raimondo di Peñafort, già Generale dell’Ordine Domenicano, iniziò a scrivere un trattato teologico, intitolato “Summa contra Gentiles”, per dare un valido ausilio ai missionari, che si preparavano per predicare in quei luoghi, dove vi era una forte presenza di ebrei e musulmani.

Il ritorno in Italia; collaboratore di pontefici
All’Università di Parigi, Tommaso rimase per tre anni; nel 1259 fu richiamato in Italia dove continuò a predicare ed insegnare, prima a Napoli nel convento culla della sua vocazione, poi ad Anagni dov’era la curia pontificia (1259-1261), poi ad Orvieto (1261-1265), dove il papa Urbano IV fissò la sua residenza dal 1262 al 1264.
Il pontefice si avvalse dell’opera dell’ormai famoso teologo, residente nella stessa città umbra; Tommaso collaborò così alla compilazione della “Catena aurea” (commento continuo ai quattro Vangeli) e sempre su richiesta del papa, impegnato in trattative con la Chiesa Orientale, Tommaso approfondì la sua conoscenza della teologia greca, procurandosi le traduzioni in latino dei padri greci e quindi scrisse un trattato “Contra errores Graecorum”, che per molti secoli esercitò un influsso positivo nei rapporti ecumenici.
Sempre nel periodo trascorso ad Orvieto, Tommaso ebbe dal papa l’incarico di scrivere la liturgia e gli inni della festa del Corpus Domini, istituita l’8 settembre 1264, a seguito del miracolo eucaristico, avvenuto nella vicina Bolsena nel 1263, quando il sacerdote boemo Pietro da Praga, che nutriva dubbi sulla transustanziazione, vide stillare copioso sangue, dall’ostia consacrata che aveva fra le mani, bagnando il corporale, i lini e il pavimento.
Fra gli inni composti da Tommaso d’Aquino, dove il grande teologo profuse tutto il suo spirito poetico e mistico, da vero cantore dell’Eucaristia, c’è il famoso “Pange, lingua, gloriosi Corporis mysterium”, di cui due strofe inizianti con “Tantum ergo”, si cantano da allora ogni volta che si impartisce la benedizione col SS. Sacramento.
Nel 1265 fu trasferito a Roma, a dirigere lo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, che aveva sede nel convento di Santa Sabina; nei circa due anni trascorsi a Roma, Tommaso ebbe il compito di organizzare i corsi di teologia per gli studenti della Provincia Romana dei Domenicani.

La “Summa theologiae”; affiancato da p. Reginaldo
A Roma, si rese conto che non tutti gli allievi erano preparati per un corso teologico troppo impegnativo, quindi cominciò a scrivere per loro una “Summa theologiae”, per “presentare le cose che riguardano la religione cristiana, in un modo che sia adatto all’istruzione dei principianti”.
La grande opera teologica, che gli darà fama in tutti i secoli successivi, fu divisa in uno schema a lui caro, in tre parti: la prima tratta di Dio uno e trino e della “processione di tutte le creature da Lui”; la seconda parla del “movimento delle creature razionali verso Dio”; la terza presenta Gesù “che come uomo è la via attraverso cui torniamo a Dio”. L’opera iniziata a Roma nel 1267 e continuata per ben sette anni, fu interrotta improvvisamente il 6 dicembre 1273 a Napoli, tre mesi prima di morire.
Intanto Tommaso d’Aquino, per i suoi continui trasferimenti, non poteva più vivere una vita di comunità, secondo il carisma di s. Domenico di Guzman e ciò gli procurava difficoltà; i suoi superiori pensarono allora di affiancargli un frate di grande valore, sacerdote e lettore in teologia, fra Reginaldo da Piperno; questi ebbe l’incarico di assisterlo in ogni necessità, seguendolo ovunque, confessandolo, servendogli la Messa, ascoltandolo e consigliandolo; in altre parole i due domenicani vennero a costituire una piccola comunità, dove potevano quotidianamente confrontarsi.
Nel 1267, Tommaso dovette mettersi di nuovo in viaggio per raggiungere a Viterbo papa Clemente IV, suo grande amico, che lo volle collaboratore nella nuova residenza papale; il pontefice lo voleva poi come arcivescovo di Napoli, ma egli decisamente rifiutò.

Per tre anni di nuovo a Parigi e poi ritorno a Napoli
Nel decennio trascorso in Italia, in varie località, Tommaso compose molte opere, fra le quali, oltre quelle già menzionate prima, anche “De unitate intellectus”; “De Redimine principum” (trattato politico, rimasto incompiuto); le “Quaestiones disputatae, ‘De potentia’ e ‘De anima’” e buona parte del suo capolavoro, la già citata “Summa teologica”, il testo che avrebbe ispirato la teologia cattolica fino ai nostri tempi.
All’inizio del 1269 fu richiamato di nuovo a Parigi, dove all’Università era ripreso il contrasto fra i maestri secolari e i maestri degli Ordini mendicanti; occorreva la presenza di un teologo di valore per sedare gli animi.
A Parigi, Tommaso, oltre che continuare a scrivere le sue opere, ben cinque, e la continuazione della Summa, dovette confutare con altri celebri scritti, gli avversari degli Ordini mendicanti da un lato e dall’altro difendere il proprio aristotelismo nei confronti dei Francescani, fedeli al neoplatonismo agostiniano, e soprattutto confutò alcuni errori dottrinari, dall’averroismo, alle tesi eterodosse di Sigieri di Brabante sull’origine del mondo, sull’anima umana e sul libero arbitrio.
Nel 1272 ritornò in Italia, a Napoli, facendo sosta a Montecassino, Roccasecca, Molara; Ceccano; nella capitale organizzò, su richiesta di Carlo I d’Angiò, un nuovo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, insegnando per due anni al convento di San Domenico, il cui Studio teologico era incorporato all’Università.
Qui intraprese la stesura della terza parte della Summa, rimasta interrotta e completata dopo la sua morte dal fedele collaboratore fra Reginaldo, che utilizzò la dottrina di altri suoi trattati, trasferendone i dovuti paragrafi.

L’interruzione radicale del suo scrivere
Tommaso aveva goduto sempre di ottima salute e di un’eccezionale capacità di lavoro; la sua giornata iniziava al mattino presto, si confessava a Reginaldo, celebrava la Messa e poi la serviva al suo collaboratore; il resto della mattinata trascorreva fra le lezioni agli studenti e segretari e il prosieguo dei suoi studi; altrettanto faceva nelle ore pomeridiane dopo il pranzo e la preghiera, di notte continuava a studiare, poi prima dell’alba si recava in chiesa per pregare, avendo l’accortezza di mettersi a letto un po’ prima della sveglia per non farsi notare dai confratelli.
Ma il 6 dicembre 1273 gli accadde un fatto strano, mentre celebrava la Messa, qualcosa lo colpì nel profondo del suo essere, perché da quel giorno la sua vita cambiò ritmo e non volle più scrivere né dettare altro.
Ci furono vari tentativi da parte di padre Reginaldo, di fargli dire o confidare il motivo di tale svolta; solo più tardi Tommaso gli disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”, aggiungendo: “L’unica cosa che ora desidero, è che Dio dopo aver posto fine alla mia opera di scrittore, possa presto porre termine anche alla mia vita”.
Anche il suo fisico risentì di quanto gli era accaduto quel 6 dicembre, non solo smise di scrivere, ma riusciva solo a pregare e a svolgere le attività fisiche più elementari.

I doni mistici
La rivelazione interiore che l’aveva trasformato, era stata preceduta, secondo quanto narrano i suoi primi biografi, da un mistico colloquio con Gesù; infatti mentre una notte era in preghiera davanti al Crocifisso (oggi venerato nell’omonima Cappella, della grandiosa Basilica di S. Domenico in Napoli), egli si sentì dire “Tommaso, tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?” e lui rispose: “Nient’altro che te, Signore”.
Ed ecco che quella mattina di dicembre, Gesù Crocifisso lo assimilò a sé, il “bue muto di Sicilia” che fino allora aveva sbalordito il mondo con il muggito della sua intelligenza, si ritrovò come l’ultimo degli uomini, un servo inutile che aveva trascorso la vita ammucchiando paglia, di fronte alla sapienza e grandezza di Dio, di cui aveva avuto sentore.
Il suo misticismo, è forse poco conosciuto, abbagliati come si è dalla grandezza delle sue opere teologiche; celebrava la Messa ogni giorno, ma era così intensa la sua partecipazione, che un giorno a Salerno fu visto levitare da terra.
Le sue tante visioni hanno ispirato ai pittori un attributo, è spesso raffigurato nei suoi ritratti, con una luce raggiata sul petto o sulla spalla.

Sempre più ammalato; in viaggio per Lione
Con l’intento di staccarsi dall’ambiente del suo convento napoletano, che gli ricordava continuamente studi e libri, in compagnia di Reginaldo, si recò a far visita ad una sorella, contessa Teodora di San Severino; ma il soggiorno fu sconcertante, Tommaso assorto in una sua interiore estasi, non riuscì quasi a proferire parola, tanto che la sorella dispiaciuta, pensò che avesse perduto la testa e nei tre giorni trascorsi al castello, fu circondato da cure affettuose.
Ritornò poi a Napoli, restandovi per qualche settimana ammalato; durante la malattia, due religiosi videro una grande stella entrare dalla finestra e posarsi per un attimo sul capo dell’ammalato e poi scomparire di nuovo, così come era venuta.
Intanto nel 1274, dalla Francia papa Gregorio X, ignaro delle sue condizioni di salute, lo invitò a partecipare al Concilio di Lione, indetto per promuovere l’unione fra Roma e l’Oriente; Tommaso volle ancora una volta obbedire, pur essendo cosciente delle difficoltà per lui di intraprendere un viaggio così lungo.
Partì in gennaio, accompagnato da un gruppetto di frati domenicani e da Reginaldo, che sperava sempre in una ripresa del suo maestro; a complicare le cose, lungo il viaggio ci fu un incidente, scendendo da Teano, Tommaso si ferì il capo urtando contro un albero rovesciato.
Giunti presso il castello di Maenza, dove viveva la nipote Francesca, la comitiva si fermò per qualche giorno, per permettere a Tommaso di riprendere le forze, qui si ammalò nuovamente, perdendo anche l’appetito; si sa che quando i frati per invogliarlo a mangiare gli chiesero cosa desiderasse, egli rispose: “le alici”, come quelle che aveva mangiato anni prima in Francia.

La sua fine nell’abbazia di Fossanova
Tutte le cure furono inutili, sentendo approssimarsi la fine, Tommaso chiese di essere portato nella vicina abbazia di Fossanova, dove i monaci cistercensi l’accolsero con delicata ospitalità; giunto all’abbazia nel mese di febbraio, restò ammalato per circa un mese.
Prossimo alla fine, tre giorni prima volle ricevere gli ultimi sacramenti, fece la confessione generale a Reginaldo, e quando l’abate Teobaldo gli portò la Comunione, attorniato dai monaci e amici dei dintorni, Tommaso disse alcuni concetti sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, concludendo: “Ho molto scritto ed insegnato su questo Corpo Sacratissimo e sugli altri sacramenti, secondo la mia fede in Cristo e nella Santa Romana Chiesa, al cui giudizio sottopongo tutta la mia dottrina”.
Il mattino del 7 marzo 1274, il grande teologo morì, a soli 49 anni; aveva scritto più di 40 volumi.

Il suo insegnamento teologico
La sua vita fu interamente dedicata allo studio e all’insegnamento; la sua produzione fu immensa; due vastissime “Summae”, commenti a quasi tutte le opere aristoteliche, opere di esegesi biblica, commentari a Pietro Lombardo, a Boezio e a Dionigi l’Areopagita , 510 “Questiones disputatae”, 12 “Quodlibera”, oltre 40 opuscoli.
Tommaso scriveva per i suoi studenti, perciò il suo linguaggio era chiaro e convincente, il discorso si svolgeva secondo le esigenze didattiche, senza lasciare zone d’ombra, concetti non ben definiti o non precisati.
Egli si rifaceva anche nello stile al modello aristotelico, e rimproverava ai platonici il loro linguaggio troppo simbolico e metafisico.
Ciò nonostante alcune tesi di Tommaso d’Aquino, così radicalmente innovatrici, fecero scalpore e suscitarono le più vivaci reazioni da parte dei teologi contemporanei; s. Alberto Magno intervenne più volte in favore del suo antico discepolo, nonostante ciò nel 1277 si arrivò alla condanna da parte del vescovo E. Tempier a Parigi, e a Oxford, sotto la pressione dell’arcivescovo di Canterbury, R. Kilwardby; le condanne furono ribadite nel 1284 e nel 1286 dal successivo arcivescovo J. Peckham.
L’Ordine Domenicano, si impegnò nella difesa del suo più grande maestro e nel 1278 dichiarò il “Tomismo” dottrina ufficiale dell’Ordine. Ma la condanna fu abrogata solo nel 1325, due anni dopo che papa Giovanni XXII ad Avignone, l’aveva proclamato santo il 18 luglio 1323.

Il suo culto
Nel 1567 s. Tommaso d’Aquino fu proclamato Dottore della Chiesa e il 4 agosto 1880, patrono delle scuole e università cattoliche.
La sua festa liturgica, da secoli fissata al 7 marzo, giorno del suo decesso, dopo il Concilio Vaticano II, che ha raccomandato di spostare le feste liturgiche dei santi dal periodo quaresimale e pasquale, è stata spostata al 28 gennaio, data della traslazione del 1369.
Le sue reliquie sono venerate in vari luoghi, a seguito dei trasferimenti parziali dei suoi resti, inizialmente sepolti nella chiesa dell’abbazia di Fossanova, presso l’altare maggiore e poi per alterne vicende e richieste autorevoli, smembrati nel tempo; sono venerate a Fossanova, nel Duomo della vicina Priverno, nella chiesa di Saint-Sermain a Tolosa in Francia, portate lì nel 1369 dai Domenicani, su autorizzazione di papa Urbano V, e poi altre a San Severino, su richiesta dalla sorella Teodora e da lì trasferite poi a Salerno; altre reliquie si trovano nell’antico convento dei Domenicani di Napoli e nel Duomo della città.

Autore: Antonio Borrelli
 


 

Nel 1567, nel Castello di Sales, a Thorens, in Alta Savoia (Francia), nasce il primo figlio della famiglia dei nobili di Boisy. Lo chiamano Francesco. Il bambino è intelligente, buono, simpatico. Il padre ripone in lui tante speranze: una carriera brillante come avvocato e politico, un matrimonio prestigioso. Francesco si laurea in giurisprudenza a Padova, ma non ha nessuna intenzione di praticare la professione forense. Vuole essere un sacerdote. Il padre accetta la vocazione del figlio che diventa prete e, poi, vescovo di Ginevra (1602), in un momento in cui la Chiesa subisce l’allontanamento di una parte dei suoi fedeli. La città svizzera è, infatti, abitata dai riformatori protestanti, ispirati da Giovanni Calvino. Così il vescovo cattolico deve trasferire la sua sede nella vicina Annecy, suggestiva città francese adagiata sulle rive di un lago, considerata la “Venezia delle Alpi”.
Francesco si distingue per la sua capacità di dialogare con i protestanti calvinisti. Grazie alle sue doti di persuasione, sia con la predicazione, sia con la parola scritta, Francesco riesce a far rientrare nel Cattolicesimo migliaia di calvinisti. E per arrivare a contattare più persone possibili si inventa un nuovo mezzo di comunicazione di massa: il manifesto. Scrive foglietti e li fa stampare in tanti esemplari, poi li attacca sui muri o li fa scivolare sotto le porte di casa. Per questo motivo Francesco di Sales è considerato il patrono dei giornalisti, degli scrittori cattolici, della stampa cattolica e dei mass media. Le sue parole semplici, che spiegano l’amore di Dio, si rivolgono sia agli umili, sia all’alta società, sia ai laici che agli uomini di Chiesa.
Nel 1610, assieme alla baronessa Giovanna Francesca de Chantal (futura santa) fonda l’Ordine della Visitazione di Santa Maria (monache senza obbligo di clausura, al servizio dell’evangelizzazione e della carità verso i poveri e gli ammalati). Il vescovo scrive oltre duemila lettere e alcuni libri tra i quali Introduzione alla vita devota e Trattato dell’amore di Dio. Alla sua figura si è ispirato San Giovanni Bosco, fondatore della Famiglia Salesiana. Francesco di Sales muore a Lione (Francia) il 28 dicembre 1622, ma viene festeggiato il 24 gennaio. Il suo corpo riposa ad Annecy nella Basilica della Visitation, mentre il suo cuore è custodito nel Monastero della Visitazione, a Treviso. Nominato dottore della Chiesa, è anche protettore dei sordomuti.


Autore:
Mariella Lentini


Fonte:
Mariella Lentini, Santi compagni guida per tutti i giorni

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Aggiunto/modificato il 2023-12-23

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