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San Giacomo Ilario (Emanuele) Barbal Cosān Religioso lasalliano, martire

28 luglio

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Enviny, Spagna, 2 gennaio 1898 - Tarragona, Spagna, 18 gennaio 1937

Il suo nome di battesimo è Manuel Barbal e nasce a Enviny, in Spagna, il 2 gennaio 1898. A 18 anni entra nella Famiglia lasalliana e si dedica all'insegnamento del latino e alla formazione dei novizi. Mentre transita sulla strada di Enviny, viene arrestato dai miliziani della guerra civile spagnola. Affidato a una famiglia in libertà vigilata, è trasferito nel carcere di Lérida e poi portato davanti al comitato di Tarragona che nel 1936 lo interna nella nave-carcere «Mahon». Si rifiuta di negare di essere un religioso e al processo conferma di non essere l'ortolano, come consigliava l'avvocato, ma un fratello delle scuole cristiane. È condannato a morte. Il 18 gennaio 1937, in un boschetto, due scariche dei fucili non lo colpiscono e i miliziani spaventati fuggono. Allora il loro capo lo uccide con un colpo alla tempia. Beatificato da Giovanni Paolo II il 29 aprile 1990, è stato canonizzato il 21 novembre 1999. Ricordato dal Martirologio Romano erroneeamente al 28 luglio (erroneamente in quanto l'anniversario del suo martiriocade il 18 gennaio), la sua memoria liturgica in Spagna è celebrata il 6 novembre unitamente a tutti i Santi e Beati martiri spagnoli del XX secolo, sotto la dicitura "Santi Pietro Poveda Castroverde, Innocenzo dell'Immacolata Canoura Arnau, presbiteri, e compagni, martiri". I Fratelli delle Scuole Cristiane celebrano al 9 ottobre la memoria liturgica di tutti i loro santi martiri spagnoli, cioè Giacomo Ilario ed i Martiri di Turon, tra i quali figurava anche un sacerdote passionista, sotto la dicitura: "Santi Cirillo, Giacomo Ilario e compagni, martiri".

Emblema: Palma

Martirologio Romano: A Tarragona ancora in Spagna, san Giacomo Ilario (Emanuele) Barbal Cosán, religioso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, martire, che, con il dilagare della persecuzione, fu condannato a morte in odio alla Chiesa.


Sono nove i Fratelli delle Scuole Cristiane, uccisi in odio alla fede durante la guerra civile spagnola (1936-1939), che Giovanni Paolo II il 29 aprile 1990 ha elevato all’onore degli altari. Otto appartengono al convento di Turò nelle Asturie (+9 ottobre 1934) e uno, il Fratel Giacomo Ilario Barbal, apparteneva al convento di Mollerusa (Catalogna).
Quest’ultimo nacque il 2 gennaio 1898 a Enviny, paesello della diocesi di Urgel (Spagna), da Antonio e Maria Cosa i quali, al fonte battesimale, gli fecero imporre i nomi di Emmanuele, Giovanni e Daniele. Dal padre specialmente, che il figlio più avanti negli anni avrà in concetto di “cristiano esemplarissimo e modello di cittadino onesto”, ricevette una buona educazione.
Dopo aver frequentato le prime classi elementari presso i Padri Paolini di Rialp, il Beato andò a studiare per sette anni, con soddisfazione dei genitori, nel seminario di Seo di Urgel (Catalogna), fino ai corsi superiori. Poi decise di condividere la vita religiosa dei Fratelli delle Scuole Cristiane, fondati da S. Giovanni B. de La Salle per l’istruzione e l’educazione della gioventù. Il 26settembre 1916 fece l’ingresso nel loro noviziato minore di Mollerusa da dove, per circa cinque mesi, scrisse ai parenti lettere molto edificanti da cui traspariva la sua soddisfazione di farsi religioso. I compagni e i superiori lo ammirarono per l’amabilità, la semplicità e l’applicazione nello studio, virtù che crebbero in lui dopo che dal vescovo di Lerida ricevette il sacramento della cresima. Dal noviziato minore di Mollerusa Fratel Barbal fu trasferito a quello maggiore di Irun (Guipùzcoa), dove il 24 febbraio 1917 vesti l’abito religioso con il nome di Fratel Giacomo Ilario e fece il noviziato con il desiderio della propria santificazione. Ne uscì il 25 febbraio 1918 per dedicarsi all’insegnamento nel collegio di Mollerusa in cui emise i voti annuali il 25 luglio 1919 e quelli triennali il 27 luglio 1921. Dagli alunni si faceva ascoltare con molta attenzione e interesse perché preparava le lezioni con grande impegno e nonostante una incipiente sordità, faceva gustare ad essi molto anche la musica. Chi gli visse accanto testimoniò che tra i confratelli si distinse per la grande devozione al SS. Sacramento, che visitava con frequenza e alla Madre di Dio, che venerava soprattutto con la recita del rosario.
Nel 1926 i superiori destinarono Fratel Giacomo Ilario al collegio di Pibrac (Haute-Garonne), patria di S. Germana Cousin (+1601), dove fu subito ammesso alla professione religiosa definitiva. Dapprima fu incaricato dell’insegnamento dello spagnuolo e del catechismo agli alunni, in seguito fu incaricato per circa sette mesi del reclutamento delle vocazioni. Chi gli visse accanto attestò che “era un buonissimo fratello nel quale non si riscontravano difetti”. Eppure dovette esercitare una eroica pazienza a causa della lingua francese che non conosceva bene, e della sordità che si aggravò in lui al punto da costringerlo a lasciare ogni carica di responsabilità.
I superiori affidarono allora al Beato la direzione della fattoria dell’Istituto, ma egli, niente affatto scoraggiato, nei momenti liberi dalle sue occupazioni, trovò il modo di rendersi utile alla congregazione scrivendo articoli per le due riviste che le appartenevano: “Vita Mariana” di Calaf e “Ave Maria” di Manresa. A causa della sua menomazione Fratel Giacomo Ilario, pienamente conformato al volere di Dio e dei superiori, verso i quali non nutrì mai sentimenti di insofferenza, nel 1934 si adattò persino a fare prima da cuoco a Calaf e, nel 1935-1936, da ortolano nella casa dei Fratelli di Cambrils, centro marittimo non lontano da Tarragona. Chi convisse con lui asserì che “si vedeva sempre allegro e molto umile”, che con frequenza si recava a pregare in cappella e che “conduceva una vita molto nascosta”.
In quel tempo la Spagna viveva tempi difficili in seguito alla consultazione elettorale del 16-2-1936, vinta dalle forze di sinistra, unite nella coalizione chiamata Fronte Popolare. Ben presto, però, appoggiati dall’esercito, dalla Falange fondata nel 1933 da Gius. A. Primo de Rivera e dai monarchici, tutti i gruppi dell’opposizione si erano uniti sotto la guida del generale J. Sanjurjo e del cattolico Calvo Sotelo. Lo scoppio delle ostilità contro il governo repubblicano fu accelerato dall’assassinio nella notte del 13 luglio 1936 del Sotelo, perpetrato da alcuni sicari qualificatisi come agenti di polizia. Quattro giorni dopo a Melilla, nel Marocco, ebbe inizio l’insurrezione militare antirepubblicana, alla testa della quale si pose poco dopo il generale Francisco Bahamonde Franco (+1975).
Nel frattempo altri riparti dell’esercito si sollevarono in tutto il territorio spagnuolo riuscendo ad avere il sopravvento nel centro-nord del paese con il sostegno della Germania di Hitler e dell’Italia di Mussolini. Le forze governative appoggiate soprattutto da milizie operaie e dalla Russia di Stalin, ebbero invece il sopravvento nella Spagna centro-orientale, ma non riuscirono a prevalere per la loro politica ambigua e incerta, l’eterogeneità delle forze che le componevano e l’insubordinazione, soprattutto all’inizio, delle masse rivoluzionarie bramose di rivendicazioni e inferocite contro la Chiesa e i suoi rappresentanti per il sostegno dato agli insorti.
Fu in questo quadro caotico che vennero effettuati incendi e distruzioni di chiese, massacri, fucilazioni in massa, vandalismi, da parte soprattutto del governo repubblicano. Nella Lettera collettiva dei vescovi spagnuoli scritta il 1° luglio 1937 viene affermato: “Nel martirologio romano non troveremo quasi una forma di martirio non usata dal comunismo, senza eccettuare la crocifissione… Alcune forme di martirio suppongono l’invertimento o la soppressione del senso di umanità”.
Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris, emanata il 19 marzo 1937 contro il comunismo ateo, scrive: “Il furore comunista non si è contentato di uccidere vescovi e migliaia di sacerdoti, di religiosi e religiose, infierendo ingiustamente con maggior impegno, contro quelli o quelle che con più zelo si occupavano degli operai e dei poveri, ma ha fatto un maggior numero di vittime tra i secolari di ogni classe” perché contrari all’ateismo comunista.
Soltanto tra i religiosi e le suore dedite all’insegnamento e all’educazione della gioventù le vittime salirono a 1388.
Allo scoppio della guerra civile il signor Tommaso Badia Vilà, industriale cattolico, si recò al collegio dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Mollerusa, in cui si trovava anche Fratel Giacomo Ilario in procinto di andare al paese natio per fare visita alla sua famiglia, per esortare i religiosi, a nome del Comitato cittadino, di abbandonare la loro casa giacché correvano il pericolo di essere massacrati dalle bande armate di Lérida.
Il Beato per 24 giorni fu ospitato dal signor Badia Vilà. Il 25 agosto 1936, però, fu arrestato con altri 34 secolari e il suo superiore, e trasferito con loro nel carcere di Lérida, in cui si trovavano già rinchiusi 500 prigionieri. Tre giorni dopo il loro arrivo furono tradotti una prima volta davanti al Comitato di Ricerca, che risiedeva nella Casa Concistoriale della città, per essere interrogati sulle loro generalità. Alla fine di settembre furono tradotti una seconda volta davanti al comitato perché precisassero meglio le loro condizioni di vita. In quell’occasione i Fratelli delle Scuole Cristiane non ebbero timore di proclamare apertamente che erano religiosi.
Poco dopo il superiore fu fucilato a Lérida. Fratel Giacomo Ilario invece il 7 dicembre 1936 fu trasferito a Ttoagona e rinchiuso nella nave-prigione “Mahón”, alla fonda nel porto. Nel separarsi dai compagni di sventura disse loro molto serenamente: “Se non ci vedremo più, arrivederci in Paradiso”.
Un sacerdote, compagno di prigionia del Beato, depose nel processo: “Sulla nave prigione si stava in continuo pericolo di morte, massimamente se le guardie e i miliziani vedevano che ci dedicavamo a pratiche religiose”. Difatti essi andavano dicendo che avevano deciso di non lasciare sopravvivere neppure un sacerdote. Sapevano del resto di essere ben coadiuvati nell’infame proposito dal presidente del Tribunale Popolare, l’avvocato Ancirea Masso Lopez, il quale nel giudizio faceva da accusatore, da pubblico ministero, da falso testomonio, e verso i sacerdoti e i religiosi si comportava come “una iena”. Al termine della guerra per una trentina di arbitrari misfatti fu condannato a morte.
Con Fratel Giacomo Ilario stava in continuo contatto Fratel Eusebio Felice, il superiore dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Tàrragona, anche lui prigioniero nella nave. Ebbe così modo di costatare con quanta straordinaria pazienza e rassegnazione sopportava la detenzione, quanto fosse contento di spargere il proprio sangue per Cristo in qualità di religioso e con quanta diligenza viveva conforme alla regola nel limite delle possibilità. Non omise mai le pratiche di devozione proprie dell’Istituto, la meditazione, il rosario, con grande edificazione dei prigionieri. Essendo stato privato della corona, recitò ugualmente il rosario prima con corone fatte e annodate con lo spago, e poi con corone fabbricate con ossi di olivo. La sua cella praticamente era un centro di pietà. In essa tanti giovani e uomini furono preparati da lui e dai confratelli alla confessione. Quando vedeva qualcuno triste correva a consolarlo o a divertirlo. Se da parte di qualche benefattore riceveva cibi o capi di vestiario speciali, preferiva privarsene per distribuirli ai più sfortunati di lui. Da tutti perciò era stimato e trattato con i riguardi dovuti a un religioso esemplare e santo.
Quando a Fratel Giacomo Ilario comunicarono che doveva presentarsi per essere giudicato, egli accolse la notizia con una certa intima soddisfazione. Il superiore gli disse che doveva cercargli un avvocato difensore ma egli gli rispose che non ne aveva bisogno perché doveva dire soltanto che era religioso. Gli fu imposto ed egli lo accettò per obbedienza. A causa della sordità fu incaricalo Frate Cirillo Giuliano, anche lui suo compagno di prigionia, perché lo accompagnasse e gli facesse da ripetitore. Dopo un po’ di tempo il Beato si recò dal superiore e gli disse: “Con questo avvocato non ci intenderemo mai”. Fratel Cirillo gli spiegò che l’avvocato avrebbe voluto farlo passare non come religioso ma come ortolano della casa di Cambrils, ma l’interessato gli rispose con molta decisione: “Io dirò la verità in tutto”. L’avvocato difensore attribuì l’intransigente atteggiamento del Beato “all’intensità della sua vita spirituale”. Sapeva che alcuni Fratelli delle Scuole Cristiane si salvarono dalla morte semplicemente perché i giudici ignoravano che erano religiosi.
Il 15 gennaio 1937 Fratel Giacomo dalla nave “Mahón” fu condotto dalle guardie a piedi e ammanettato nel salone del seminario in cui era stato eretto il tribunale. Fu giudicato reo di morte non per motivi politici o criminali, ma unicamente perché aveva dichiarato di essere religioso. Quando Fratel Cirillo gliene diede la triste notizia, anziché turbarsi, egli gli rispose con ammirabile rassegnazione: “Sia benedetto Dio; m cielo pregherò per loro”. Scrisse quindi con una matita al babbo e alla famiglia: “Sono stato giudicato e condannato a morte. Accetto la sentenza, contento; sono stato condannato soltanto perché sono religioso. Non piangete, non sono degno di compassione. Morrò per Dio e per la patria. Addio. Vi aspetterò in Paradiso”. Al Fratello che gli aveva fatto da ripetitore donò l’orologio perché non ne avrebbe più avuto bisogno.
I giorni dal 15 al 18 gennaio del 1937 furono trascorsi dal martire nel carcere “Castillo de Pilatos”. La signora Teresa Torrés, che era stata autorizzata a mandare il cibo ai Fratelli delle Scuole Cristiane detenuti sulla nave, quando seppe che Fratel Giacomo era stato condannato a morte, andò per tre volte a trovarlo in carcere. Depose ne! processo: “Mi diceva di pregare Dio perché egli potesse morire al più presto per lui”. Anche il direttore del carcere asserì: “A giudicare dalle domande che faceva, lo si vedeva molto tranquillo e con un grande desiderio di morire.. .per la gloria di Dio. Gli altri condannati domandavano se era arrivato l’indulto che aspettavano; egli , al contrario, domandava quando sarebbe arrivata l’ora di morire”. Quando gli fu comunicata, manifestò il desiderio di dare il denaro che aveva a favore degli operai poveri, ma il regolamento carcerario non glielo permise.
Il 18 gennaio tra le quindici e le sedici, il degno Fratello delle Scuole Cristiane fu condotto nel bosco di una collina detta “dell’olivo”, che sorgeva dietro il cimitero. Alto, snello, con un vestito di velluto rigato, berretto grigio, sciarpa, occhiali di ferro, egli si lasciò mettere come un automa sul ciglio della strada. Colà se ne stette silenzioso, con le mani giunte e le dita intrecciate sul petto. Non badava a nulla assorto com’era nella preghiera e con gli occhi rivolti al cielo.
Il comandante del plotone di esecuzione ordinò il fuoco per ben due volte ai miliziani vestiti in borghese. Benché essi fossero una decina, sbagliarono il bersaglio forse perché inesperti o troppo emozionati; il comandante in preda al furore, con la sua pistola d’ordinanza sparò due o tre colpi alla testa del Fratello che cadde esanime per terra. Poi rivolse una serie di insulti ai codardi miliziani che se l’erano svignata con la persuasione che il martire, per un miracolo non era caduto a terra sotto i loro colpi.
Del martire sono rimasti 38 scritti. Essi sono contenuti in un volume di 118 pagine. Da essi traspare la fede da cui era animato e un impegno continuo a trasfondere in altri le proprie convinzioni di formatore sincero. Le sue reliquie sono venerate nella cappella dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Tarragona. Giovanni Paolo II ne riconobbe il martirio il 21 dicembre 1989 e lo beatificò il 29 aprile 1990.


Autore:
Guido Pettinati

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Aggiunto/modificato il 2023-07-28

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