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Beato Grimoaldo della Purificazione (Ferdinando Santamaria) Religioso passionista

18 novembre

Pontecorvo, Frosinone, 4 maggio 1883 - Ceccano, Frosinone, 18 novembre 1902

Il Beato Grimoaldo della Purificazione (al secolo Ferdinando Santamaria) nacque a Pontecorvo (FR) il 4 maggio 1883, entrò nel noviziato dei Passionisti in Paliano (FR) il 16 febbraio 1899, emise la professione dei voti temporanei il 6 marzo 1900 e morì prematuramente per meningite acuta nel convento dei Passionisti in Ceccano (FR) il 18 novembre 1902. Giovanni Paolo II lo dichiarò “venerabile” il 14 maggio 1991 e “beato” il 29 gennaio 1995. Le spoglie mortali di Grimoaldo sono venerate nella chiesa dei Passionisti Badia di Ceccano.

Martirologio Romano: A Ceccano presso Frosinone, beato Grimoaldo della Purificazione (Ferdinando) Santamaria, religioso della Congregazione della Passione, che, mentre si preparava con fervore e gioia al sacerdozio, morì piamente colpito da una malattia.


Il nome di questo beato, Grimoaldo, pare richiamare più la figura austera ed arcigna di un antico anacoreta del deserto piuttosto che quella di un simpatico giovane contemporaneo. Ma questo non è che il nome che il diretto interessato scelse divenendo passionista, mentre al battesimo era stato chiamato Ferdinando. Primogenito di cinque figli, era nato a Pontecorco, in provincia di Frosinone, il 4 maggio 1883 da Pietro Paolo Santamaria e Cecilia Ruscio, ferventi cristiani, lavoratori della canapa grezza che con le loro mani esperte veniva trasformata in funi di varie dimensioni rivendute poi nei mercati dei paesi vicini. Fu battezzato il giorno seguente e cresimato dopo soli cinque mesi. Il piccolo Ferdinando, aiutato anche dall’esempio del papà e particolarmente della buona mamma, crebbe sano e buono. Nel 1890 iniziò le scuole elementari. Ricevette la prima comunione ad appena otto anni, vista la particolare bontà che agli occhi del parroco lo contraddistingueva dai suoi coetanei.
La chiesa era il luogo preferito del piccolo Ferdinando, frequentato con assiduità e particolarmente amato. Serviva all’altare come chierichetto con diligenza e partecipazione emotiva. Non riusciva a trattenersi dal piangere nel caso in cui fosse stato impossibilato ad andare in chiesa perché costretto a lavorare. Ma quando era in chiesa nulla poteva distrarlo. Inginocchiato dinnanzi alla statua dell’Immacolata, pareva anche lui una piccola statua: immobile con le mani giunte, qualsiasi cosa succedesse. Il vecchio sacrestano aveva le lacrime agli occhi e si incantava a guardarlo. Al parroco si allargava il cuore pensando al futuro di quel ragazzo. E’ pur vero che il papà lo sognava e lo voleva a tutti i costi funaio, ma don Vincenzo Romano intuì che la sua vocazione era un’altra: Ferdinando era sempre in chiesa come attirato da una calamita, aveva una grande passione per servire la Messa, era sempre presente nel coro parrocchiale a cantare con la sua bella voce, restava a lungo in una silenziosa ed assorta contemplazione. Il parroco dunque non si stupì affatto quando un giorno gli riferirono di aver visto Ferdinando, il figlio del funaio, rapito in estasi davanti all’immagine della Madonna.
E’ un ragazzo riservato, ma non isolato. Mite, ma non privo di iniziativa. Buono, ma desideroso che anche gli altri lo fossero altrettanto. Alla mamma confidò di pregare per iragazzi cattivi “perché diventino buoni”. Sovente insegnava catechismo ai compagni. Con la famiglia Santamaria viveva anche una vecchia zia, devota certo ma poco dichiesa. Il nipote ogni tanto le ricordava che “va bene lavorare e pregare in casa, maoccorre andare anche in chiesa ad ascoltare la messa”. La penitenza era inoltre un altro punto forte di Ferdinando: pregava con chicchi di granturco o con sassolini sotto le ginocchia, sceglieva il cibo meno saporito, spesso digiunava completamente, ricercava mortificazioni degne di un eremita. Ripeteva infatti di essere nato per fare penitenza. In famiglia tutti sapevano che talvolta egli trascorreva parte della notte vegliando e pregando. Un testimone riferì: “Desiderava seguire Gesù nelle sue sofferenze”.
La vita austera condotta dai Passionisti nel vicino santuario della Madonna delle Grazie, che lui frequenta sempre con maggiore frequenza, pareva fatta apposta per lui. Ne parlò apertamente in famiglia, ma il padre lo spinse verso il mestiere di funaio. Ferdinando, essendo il primogenito, doveva pur continuare il lavoro dei suoi avi. Tentò dunque di distoglierlo, anche con severe punizioni, da quello che secondo lui non era che un capriccio da adolescente. Rivelandosi inutili anche le punizioni più rigorose, il padre gli comperò un cavallo ed un carretto, mandandolo per fiere e mercati a vendere funi, sperando che facendo soldi l’idea del convento gli passasse dalla testa. La proposta era assai lusinghiera, ma Ferdinando indicò al padre il fiume vicino e commentò: “La vita scorre come l’acqua... i nostri giorni vanno via veloci... e poi?”. Iniziarono così a traballare le convinzioni del padre, che però non riuscì ad arrendersi definitivamente. Una sera il ragazzo tornando a casa dalla funzione, trovò la porta di casa ormai chiusa e fu costretto a dormire da una vicina. Ripensando a tanta severità il padre sentì un nodo alla gola ed ebbe voglia di piangere. Anche lui ormai iniziava a capire ciò che sua moglie da tempo aveva ormai intuito, contemplando suo figlio già sacerdote e missionario.
Il ragazzo aveva ormai sedici anni e sapeva bene ciò che desiderava. Aveva addirittura pure anticipato lo studio di latino, grammatica e retorica, più che mai deciso a seguire la sua strada. Suo maestro fu don Antonio Roscia, che da giovane aveva tentato la vita del convento ma per malattia fu costretto a rientrare in famiglia, pur conservando ammirazione e simpatia per i Passionisti. Ferdinando studiò anche di notte a lume di candela, recuperando in pochi mesi quasi tre anni di studio. Superò le immancabili e facilotte ironie dei compagni che non comprendevano la sua strana decisione. Anche il padre infine cedette, confidando alla moglie Cecilia: “Il nostro ragazzo non vuole essere funaio; il suo interesse è solo per la chiesa”. Sarà lui ad accompagnarlo sino alla stazione di Aquino per dargli l’ultima benedizione e l’ultimo bacio.
Ferdinando divenne più allegro ed espansivo, la gioia ormai incontenibile gli era dipinta sul volto. Testimoniò uno dei suoi migliori amici: “Incontrandolo e vedendolo tutto trasformato, gli domandai cosa avesse ed egli mi dichiarò che intendeva farsi passionista”. Partì “con volto lieto”, avvertendo gli scettici di turno: “Io me ne vado e non tornerò più” e lasciando dietro di sé il ricordo esemplare di un ragazzo silenzioso, modesto ed irreprensibile. Solo una volta in casa fu disobbediente: invitato ad andare a chiamare il papà alla locanda, non andò temendo di sentirlo bestemmiare e ciò gli avrebbe ferito il cuore.
Il 15 febbraio 1899 Ferdinando arriva a Paliano, in provincia di Frosinone, per iniziare l’anno di noviziato. Il 5 marzo seguente vestì l’abito religioso ed assunse il nome di Grimoaldo per devozione verso il santo patrono del suo paese natale. La vita di novizio, tutta solitudine, preghiera e mortificazione pareva cucita proprio su misura per lui: una gioia così vera e intensa non l’aveva mai sperimentata prima di allora. I confratelli più anziani, come pure i compagni, notarono in lui un impegno costante verso la perfezione.
Emessa la professione religiosa, Grimoaldo si trasferì a Ceccano, sempre in provincia di Frosinone, ove riprese gli studi classici. Seguirà poi lo studio della filosofia e della teologia per prepararsi al sacerdozio. All’impegno per la santità aggiunse quello non minore per lo studio. Con candore e sincerità si affidò alla guida del direttore spirituale. Con tenacia si chinò sui libri, desideroso di prepararsi ad essere un degno sacerdote di Cristo. Accettò con gratitudine l’aiuto che qualche confratello gli offrì in ambito scolastico, viste le lacune della sua formazione ricevuta a Pontecorvo, e fu addirittura additato dai professori quale modello per i compagni. Grimoaldo viveva “sempre ilare, anche nelle umiliazioni, nelle contrarietà, nelle difficoltà degli studi”. Nonostante gli studenti avessero pochissimi contatti con il mondo esterno e vivessero in pratica sconosciuti alla gente, la fama di Grimoaldo oltrepassò il recinto della casa religiosa: anche le persone che vivevano attorno al convento notarono infatti la sua bontà e si raccomandavano fiduciose e non invano alla sua preghiera.
Ai genitori che andavano a trovarlo insieme alla sorella Vincenzina, il giovane figlio mostrava tutta la sua gioia per la vocazione religiosa e tutta la sua riconoscenza per l’educazione ricevuta in famiglia. Il ragazzo era un “colosso di salute”: robusto, ben proporzionato, abbastanza alto. Nessuno avrebbe mai sospettato cosa stesse per accadere. Il 31 ottobre 1902, durante una passeggiata pomeridiana nei dintorni del convento, Grimoaldo avvertì improvvisi e lancinanti dolori alla testa, accompagnati da vertigini e disturbi visivi. Tornò dunque indietro e si mise subito a letto. Il giorno seguente, solennità di Tutti i Santi, partecipò alla celebrazione eucaristica e si comunicò devotamente. Perdurando però il male, si rimise nuovamente a letto e venne chiamato il medico. La diagnosi fu crudele e spazzò via ogni speranza: meningite acuta, cui si aggiungero anche alcune complicazioni. Nei giorni della malattia Grimoaldo rivelò ancor di più il suo desiderio di santità e la sua camera si trasformò in una sorta di scuola di virtù.
L’ammalato infatti rifulse “in quella pazienza di cui ha dato sempre prova ammirevole e spesso ripete di accettare la malattia dalla volontà di Dio; raccomanda ai compagni che lo aiutino con la preghiera a non perdere la pazienza e il coraggio nell’abbracciare la croce. Con una gioia che gli brilla sul volto” si dichiarò “contentissimo di fare la volontà di Dio”. Negli ultimi istanti di vita il suo volto divenne splendente come il sole, i suoi occhi si fissarono su un punto della stanza”. Si spense al tramonto del sole “calmo, sereno e tranquillo, qual bambino che dolcemente si riposa fra le braccia di sua madre”. Era il 18 novembre 1902 e Grimoaldo aveva appena diciannove anni e mezzo. I religiosi si facero animo “nella persuasione che si perde un confratello e si acquista un santo”. Ai genitori, non presenti alla sua morte, Grimoaldo apparve confortandoli per la perdita del caro figlio. Vivranno dunque sereni, contenti di avere avuto un figlio così, ed a lui si rivolgeranno pregandolo nelle loro necessità.
Le sue spoglie mortali furono sepolte nel cimitero del paese, ma nell’ottobre 1962 vennero esumate e traslate nella chiesa del convento passionista di Ceccano. Dopo ben sessantanni anni nella tasca del suo abito funebre, ridotto ormai a brandelli, fu ritrovato un pezzeto di stoffa unitamente ad un biglietto con la scritta: “abito del venerabile Gabriele dell’Addolorata”, una reliquia che il giovane portava sempre con sé. Grimoaldo durante la vita aveva guardato con particolare affetto a San Gabriele, nutrendosi del suo esempio. Scriveranno infatti di lui: “Questo angelo è stato un perfetto imitatore del nostro venerabile Gabriele, tenerissimo devoto della Vergine, di squisita purità d’intenzione, di continuo e intimo tratto con Dio; docile e maneggevole come cera nelle mani dei superiori”. Come avvenuto quaranta anni prima per Gabriele, anche in Grimoaldo lodarono “quel dimostrarsi sì cauto e guardingo nel fare gran conto delle piccole cose in cui è riposta la santità del religioso; quel trovare le sue delizie nello stare davanti a Gesù sacramentato ove a volte passava intere ore; quel mostrare tanto fervore nella recita delle divine lodi”.
La sua fama di santità si estese enormemente, numerose grazie furono attribuite alla sua intercessione e finalmente Papa Giovanni Paolo II lo dichiarò “venerabile” il 14 maggio 1991 e “beato” il 29 gennaio 1995.


Autore:
Fabio Arduino

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Aggiunto/modificato il 2006-11-16

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