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Venerabile Giuseppe (Michele) Ghezzi Religioso dei Frati Minori

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Lecce, 19 agosto 1872 - 9 febbraio 1955

Michele Ghezzi nacque a Lecce il 19 agosto 1872, da una famiglia nobile. A sedici anni fu colpito da una grave malattia, da cui fu guarito per intercessione della Madonna di Pompei. Si sentì spinto a vivere la carità verso i più poveri, col fondamentale appoggio, anche di natura economica, di sua madre. Quando entrambi i genitori morirono, Michele, che già era Terziario francescano, chiese di essere ammesso tra i Frati Minori Riformati (uniti, nel 1897, all’Ordine dei Frati Minori). Inizialmente fu respinto, a causa della sua fragile salute e dell’età avanzata secondo i criteri dell’epoca. Il suo vescovo voleva che diventasse sacerdote diocesano, ma lui voleva restare un semplice fratello laico. Alla fine entrò in convento il 2 agosto 1906, poco prima di compiere trentaquattro anni; professò i primi voti religiosi l’8 settembre 1909, col nome di fra Giuseppe. Divenne noto come il “Conte con la bisaccia” per le sue instancabili questue, affrontate tra prove fisiche (gli fu amputato il mignolo di un piede) e consolazioni. Attraversò le due guerre mondiali, offrendo le sue sofferenze per i morti sui campi di battaglia. Dal Natale 1954 si aggravò: la gente iniziò a visitarlo, per ricambiare l’amore che aveva avuto per loro. Fra Giuseppe morì quindi il 9 febbraio 1955, nella sua cella del convento di Sant’Antonio a Lecce. È stato dichiarato Venerabile col decreto promulgato il 18 novembre 2000. I suoi resti mortali riposano nella chiesa parrocchiale di Sant’Antonio a Fulgenzio, a Lecce.



A Lecce, nella nobile casa dei Conti Ghezzi, Michele nacque il 19 agosto 1872, quarto di sette fratelli. Il padre Pasquale, avvocato, era Duca di Carpignano, la madre, Carmela Carrozzini, era Baronessa di Soleto, entrambi molto pii.
Michelino, come era familiarmente chiamato, d’animo sensibilissimo, aveva anche l’esempio di due prozii missionari e della nonna che aprì le porte di casa ai gesuiti colpiti dalle leggi anticlericali. Bambino vivace, impulsivo, a volte anche prepotente, ricevette una prima istruzione in casa, come era consuetudine nelle famiglie agiate.
Si iscrisse poi, da esterno, al Collegio Argento dei Gesuiti ma a sedici anni, per gravi problemi di salute, fu costretto a ritirarsi. Le lunghe cure, inevitabilmente, lo portarono ad isolarsi e lui trovò il conforto nella preghiera. Profondamente religioso, come passatempo costruiva presepi.
Quando si rese necessaria una delicata operazione chirurgica, la madre decise che prima si sarebbero rivolti alla Madonna di Pompei. La guarigione arrivò e, per segnalare la grazia, fu Michele in persona che scrisse una lettera al beato Bartolo Longo.
Giovane ventunenne, finalmente in salute, contrariamente ai fratelli che, seguendo le orme paterne, studiarono Legge, intraprese gli studi di pittura. Mise in pratica però, soprattutto, gli inviti del Vangelo che ascoltava fin da quando era bambino. Sue confidenti privilegiate erano la madre e la sorella minore.
Iniziò ad aiutare in parrocchia, a insegnare il catechismo ai bambini preparandoli alla confessione e alla comunione e, grande devoto dell’Eucaristia, accompagnava volentieri i sacerdoti al capezzale dei malati. Aderì alla “San Vincenzo”, all’Opera di Propaganda Fede, all’Opera della Santa Infanzia: sapeva bene che «la fede senza le opere è morta» e a quei tempi la miseria era ad ogni angolo di strada.
Lui, il figlio del Conte, per aiutare i poveri cominciò a tendere la mano anche oltre il cerchio delle conoscenze e mentre avvicinava, sia benefattori che bisognosi, dava consigli e conforto. Sebbene fosse giovane, in molti trovarono sollievo nelle sue parole, nel suo sguardo e nel suo abbraccio.
Amava il grande santo di Assisi che da ricco si era fatto povero per amore del Signore e Michele, proprio nella spiritualità francescana, trovò la risposta al proprio futuro. Entrò in contatto con il Terz’Ordine grazie a Donna Letizia Balsamo, mentre due gravi lutti lo portarono definitivamente sulla strada della consacrazione religiosa. Quando aveva ventisei anni morì, quasi improvvisamente, il padre, quattro anni dopo fu la volta della madre, la “complice” delle sue opere di pietà.
In quegli anni, superata anche a Lecce la tempesta delle soppressioni religiose, i Minori Riformati, proprio grazie a Donna Balsamo, prendevano sede stabile presso “il podere di Fulgenzio”, un’antica dimora quattrocentesca posta appena fuori dal centro cittadino, che i frati adattarono alle proprie esigenze.
Michele decise di entrare tra i francescani declinando l’invito del vescovo che lo avrebbe accolto volentieri tra il suo clero. Determinato a non diventare sacerdote, bussò al convento di S. Antonio. Aveva trentatré anni e i frati dovettero superare non poche perplessità. Per quei tempi era un postulante “troppo maturo”, la salute restava cagionevole e soprattutto era un nobile che in città conoscevano tutti. Michele insistette.
Fece il suo ingresso in convento il 2 agosto 1906, con l’intento di servire Dio e i fratelli «in qualche piccolo servizio». Alla sorella, che da quattro anni era carmelitana a Bari col nome di suor Maria Clotilde, scrisse: «Quanto è buono il Signore!».
Partì per la casa di noviziato di Galatone, ormai era fra Giuseppe. La sua celletta era di fronte a quella abitata da S. Egidio Maria da Taranto che prese a modello. I problemi di salute, però, fecero posticipare la professione.Poteva giovargli il cambiamento d’aria e quindi tornò a Lecce, poi fu mandato al convento di Squinzano. Professò finalmente l’8 settembre 1909.
Nell’umile veste di fratello laico visse in diversi conventi della Provincia di Terra d’Otranto: Manduria, Martano, Francavilla Fontana, Soleto. Nelle varie comunità ricopriva solitamente il compito di sacrestano e di questuante e quindi il “Conte con la bisaccia” diveniva presto familiare.
Fu fedele ai suoi incarichi anche quando, a causa di una infezione al mignolo del piede (che gli fu amputato senza anestesia), poté svolgerli a gran fatica. Il passo divenne incerto, fu costretto quasi a trascinarsi di porta in porta a costo di non poche umiliazioni, ma lui confidava: «Deve essere bello vedersi sbattere le porte in faccia».
Fu a Manduria e a Lecce durante la Prima Guerra Mondiale e proprio l’8 dicembre 1915, a quarantatré anni, fece la professione perpetua. Giungevano dal fronte le tristi notizie della morte di tanti giovani e i problemi di salute divennero, per fra Giuseppe, strumento di espiazione. Alla sorella carmelitana scrisse: «Raccomandiamoci al Signore che ci aiuti a diventare più buoni e ci conceda la grazia specialissima di offrirci vittime d’immolazione per i peccati degli uomini».
Nel 1916, per un’infezione, le gambe divennero piagate e sanguinolente. Faceva pena vederlo, ma lui tutto offriva in suffragio delle tante vittime che l’odio andava mietendo in tutta Europa. Per penitenza, di notte, riposava su una sedia.
Anche nel Salento i tempi difficili del dopoguerra lasciarono il posto alla vita normale. Appena gli fu possibile riprese a questuare diffondendo le riviste missionarie, noncurante del fatto che, per il suo zoppicare, era a volte deriso.
Passarono gli anni, arrivò il Fascismo, scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi morti e con i suoi orrori e fra Giuseppe nulla poteva se non pregare. Dal 1948 la frattura del femore sinistro lo costrinse alla sedia a rotelle e a non lasciare più il convento di Lecce. Furono allora i suoi tanti devoti a ricambiare le innumerevoli visite che l’umile frate aveva fatto durante il suo semplice quanto fecondo apostolato.
Fra Giuseppe fu soprattutto un uomo di preghiera. Scrisse: «Oh Signore, l’incenso della mia umile preghiera si innalzi a te come lode perpetua, adorazione incessante, benedizione eterna, riparazione continua. Tutti i palpiti del mio povero cuore ti dicano e ti ripetano incessantemente: Ti amo Gesù mio!».
Da sempre devotissimo della Madonna, memore della prodigiosa guarigione di quando era ragazzo, recitava più volte al giorno il rosario, coinvolgendo quanti poteva, inginocchiandosi anche in cucina di fronte alle pentole.
Non ostentò mai la sua cultura, che almeno dal punto di vista religioso era eccellente, avendo studiato dai gesuiti ed appartenendo ad una famiglia benestante. Non primeggiò mai sui confratelli o su quanti entravano in contatto con lui. Era un contemplativo, cercò per tutta la vita solo di raggiungere la vetta della santità. Era cercato di continuo, si diffuse pure la fama che operasse dei miracoli.
Dopo il Natale 1954 la salute peggiorò velocemente: fra Michele morì la sera del 9 febbraio 1955. Nel ricomporre la salma si scoprì che aveva indosso diversi strumenti di penitenza. Il funerale fu solenne e trionfale, con un’eco vastissima.
Il nulla osta per l’avvio della sua causa rimonta al 19 giugno 1982, ventitré anni dopo la sua morte. Il decreto di convalida degli atti del processo cognizionale portano invece la data del 24 gennaio 1992.
Nello stesso anno fu presentata la “Positio super virtutibus”, che venne esaminata dai Consultori teologi della Congregazione delle Cause dei Santi il 14 aprile 2000 e, il 17 novembre seguente, dai cardinali e dai vescovi membri del medesimo Dicastero. Il giorno successivo, il 18 dicembre 2000, il Papa san Giovanni Paolo II autorizzava la promulgazione del decreto sulla eroicità delle virtù di fra Giuseppe Ghezzi, conferendogli il titolo di Venerabile.

Autore: Daniele Bolognini

 



Sarà pure figlio cadetto (cioè, per farla semplice, maschio non primogenito), ma sempre di conte si tratta; e tale fan sentire, dal giorno della nascita, nel 1872, quel ragazzo dalla salute fragile, destinato un giorno ad essere Conte di Poggio Aquilone in quanto figlio dell’avvocato Pasquale, Duca di Carpignano, e della nobildonna Carmela Carrozzini, Baronessa di Soleto.
Vivace, impulsivo, a volte anche prepotente, studia in casa come la famiglia può permettersi di fare e come allora si usava, ma a 16 anni si aggravano le sue condizioni di salute e solo la Madonna di Pompei lo salva da un delicato e rischioso intervento chirurgico.
La malattia lo aveva progressivamente isolato, facendogli preferire la tranquillità della sua camera a qualsiasi contatto umano: insieme alla salute fisica, la Madonna gli fa anche il regalo di “spingerlo” fuori, facendolo impegnare a servizio degli altri.
Aiuta in parrocchia, fa catechismo, lavora per le Opere missionarie, soprattutto comincia ad avere un occhio attento alle povertà del momento, prima nella San Vincenzo, poi anche a titolo personale verso i tanti poveri che trova lungo le strade.
Devoto per natura e per tradizione di famiglia, il suo cristianesimo fa un salto di qualità con l’apertura ai poveri, da aiutare, ma soprattutto da evangelizzare e confortare. Sembra che in questo riesca particolarmente bene: se, infatti, per soccorrerli economicamente ha bisogno degli altri, in primo luogo di mamma e poi di tanti benefattori spesso anonimi che si servono di lui per le loro opere di carità, nascono invece dal suo cuore, cioè sono esclusivamente sue, le parole di consolazione e di speranza che regala ai poveri.
Intanto, però, il giovane conte comincia ad abituarsi a tendere la mano e impara anche l’umiliazione di farsi dire di no. Di pari passo alla tessitura di questa rete di carità comincia anche l’intenso lavoro di modellare e modificare il suo carattere, innamorandosi di Francesco d’Assisi, il dolce e umile fratello universale che della sua vita ha saputo fare un capolavoro di pazienza e mitezza.
Cosicché gli sembra naturale, dopo la morte quasi improvvisa di papà seguita a breve distanza da quella di mamma, andare nel 1905 a bussare al Convento francescano di S. Antonio di Lecce. La cosa che non può prevedere è l’accoglienza non proprio entusiasta dei frati, sia per l’età considerata non più giovanile (33 anni!) e sia per la notoria sua appartenenza alla nobiltà cittadina.
Mentre il vescovo di Lecce gli farebbe ponti d’oro pur di averlo nel seminario diocesano, il nostro povero conte si adatta invece a far anticamera al convento: o frate o niente, anche perché l’unica condizione che pone è di essere per tutta la vita frate questuante, senza arrivare mai al sacerdozio.
Con la pazienza, che è riuscito a conquistare, la vince lui. Entra in noviziato nel 1906 arrivando solo nel 1909 alla prima professione come fratello laico e nel 1915 a quella solenne, perché anche la salute si mette di mezzo, tornando a vacillare.
Facendo un certo scalpore in città, butta alle ortiche il titolo nobiliare e la parte di patrimonio che gli spetterebbe, dando inizio a quello che farà per tutta la vita: interminabili questue porta a porta, a mendicare cibo, raccogliere anche rifiuti sgarbati, collezionare insulti e fare incetta di beffe da parte dei soliti buontemponi.
Attraversa i due conflitti mondiali, non potendo altro fare che pregare e offrire le sue sofferenze per le giovani vite massacrate sui vari fronti. Il “conte con la bisaccia” raccoglie, ma soprattutto semina. Continua cioè, come faceva a casa, a consigliare, confortare, incoraggiare, consolare, tanto che è più quello che dona che quello che riceve in carità.
Una brutta infezione ad un piede gli causa l’amputazione (naturalmente senza anestesia) di un mignolo, seguita da piaghe insanabili nelle gambe che gli rendono sempre più faticoso il camminare, fino a costringerlo solo più a trascinarsi da una casa all’altra.
Costretto dal 1948 in sedia a rotelle per una frattura del femore, mentre le sue mani fanno scorrere incessantemente i grani del rosario, la gente prende l’abitudine di restituire all’insignificante fraticello le visite che egli per 40 anni aveva fatto nelle loro case. Non sono visite, per così dire, disinteressate: da lui cercano ancora un consiglio e una parola di speranza e addirittura si sparge la voce di guarigioni miracolose ottenute grazie alla sua preghiera.
Il 9 febbraio 1955 Fra Giuseppe Ghezzi si spegne dolcemente. Il 18 novembre 2000 Giovanni Paolo II ha riconosciuto l’eroicità delle sue virtù.


Autore:
Gianpiero Pettiti

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Aggiunto/modificato il 2018-01-14

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