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Don Luigi Guala

Testimoni

Torino, 14 ottobre 1775 – 6 dicembre 1848

Sacerdote di Torino, insigne moralista e teologo, Don Luigi Guala fu iniziato all’apostolato dal Venerabile Pio Brunone Lanteri di cui fu collaboratore e con il quale fondà il Convitto Ecclesiastio di San Franceso d’Assisi volto alla formazione del giovane clero torinese. Ne fu rettore sino alla morte ed ebbe tra i suoi discepoli due illustri santi dell’Ottoento, quali Giuseppe Cafasso e Giovanni Bosco.



Se nella storia della Chiesa ci fu don Bosco, come è noto, molto lo si deve a San Giuseppe Cafasso. È giusto però anche ricordare che Cafasso ebbe molto da un sacerdote oggi quasi sconosciuto.
Luigi Maria Fortunato Guala nacque a Torino il 14 ottobre 1775, da famiglia distinta originaria di Acqui Terme. Dottore in Sacra Teologia presso la Regia Università, fu sacerdote dai “costumi irreprensibili, disinteressato, dalla profonda pietà e dalla vasta cultura”. Giovane prete, mentre Torino era sotto il governo della Repubblica Francese, si dedicò alla visita e al conforto dei malati negli ospedali. Con l’avvento dell’Impero e la prigionia di Pio VII per ordine di Napoleone, Guala fu tra i collaboratori del Marchese d’Azeglio nell’aiutare il pontefice e i cardinali che erano stati imprigionati. Nonostante i controlli della polizia e i pericoli conseguenti, riuscirono a mantenere col papa una corrispondenza segreta, ricevendone ordini e consigli. Grazie a loro egli poté esercitare, per quanto possibile, la sua autorità. Guala, in prima persona corse il rischio di essere imprigionato. Tale attività fu svolta nell’ambito delle Amicizie Cattoliche di cui faceva parte, fondate da un ex gesuita, Nicolao de Diessbach (1732-1798), e riorganizzate dal venerabile Pio Brunone Lanteri, con lo scopo di formare il clero e diffondere la “buona stampa”.
Nel 1805 don Guala fu nominato, da mons. Giacinto Della Torre, Rettore della Congregazione degli Artisti che aveva sede nella chiesa di San Francesco d’Assisi. Prese abitazione presso quella chiesa dove, fin dai primi tempi, riunì alcuni giovani ecclesiastici per istruirli, con conferenze di Teologia Morale secondo gli insegnamenti di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Tornato sul trono Vittorio Emanuele I di Savoia, avvalendosi del titolo di teologo collegiato, ottenne il riconoscimento ufficiale delle conferenze cui tre anni più tardi poté dare forma stabile. Nell’estate del 1817 aprì, per quanti le frequentavano, un collegio: nacque così il Convitto Ecclesiastico di Torino. Nel primo anno furono accolti dodici alunni. Guala, nominato rettore di San Francesco, prese possesso dell’annesso ex-convento espropriato durante l’occupazione francese e adibito in parte a caserma. Dovette corrispondere un canone non piccolo, nonostante le misere condizioni in cui lo stabile versava. Il 23 febbraio 1821 vi fu l’approvazione del nuovo arcivescovo mons. Chiaverotti, l’anno successivo poterono essere accolti circa sessanta sacerdoti. Si tenevano due lezioni al giorno di morale e si imparava a predicare. Don Luigi, nei suoi insegnamenti, non cedette né al rigorismo, né al permissivismo, soprattutto contribuì a sradicare le influenze giansenistiche ancora influenti nella Chiesa torinese. Un po’ burbero, ma dall’indole buona, esigeva il rispetto delle regole, anche da parte del personale esterno all’istituto. Forte fu la sua devozione al Santissimo Sacramento, alla Vergine Maria e al papa.
Nella formazione dei convittori elemento determinante furono gli Esercizi ignaziani che si pensò di tenere in luogo appartato, nel bellissimo contesto naturale del Santuario di S. Ignazio a Pessinetto di Lanzo. Lasciato dai Gesuiti dopo la loro soppressione, il complesso era in condizioni precarie. Nel 1836, con decreto, l’arcivescovo Della Torre lo nominò amministratore e rettore e così poté fare alcuni lavori di ristrutturazione. Dalle sue preziose relazioni attingiamo oggi notizie storiche sul santuario e sulle feste popolari che vi si svolgevano con grande afflusso di fedeli. In quella che sarebbe divenuta la Casa di Esercizi principale della diocesi, predicò più volte insieme al venerabile Lanteri i ritiri del clero. Nella formazione dei sacerdoti pensò inoltre ad un apostolato “sul campo”, nelle parrocchie e nelle prigioni. Non vi si recò personalmente, ma vi inviò aiuti materiali e assistenza spirituale. Assistette alcuni condannati a morte; nel 1821, sugli spalti della Cittadella, essendo partito l’ordine al fuoco prima del tempo, il crocifisso che teneva tra le mani, rimase spruzzato di sangue. Nello svolgere il suo ministero attingeva dal proprio patrimonio, ma riceveva anche generose offerte da alcuni benefattori. Furono suoi penitenti eminenti ecclesiastici, compresi gli arcivescovi Chiaverotti e Fransoni, personaggi della Corte e Ministri, su cui ebbe una certa influenza. Fu confessore, per molti anni, della Serva di Dio Giulia di Barolo che ricorreva al suo consiglio insieme al beato Marcantonio Durando; conobbe Silvio Pellico. Fu sempre stretto il suo legame con i Gesuiti, tutto ciò gli attirò non pochi nemici, tra i quali Vincenzo Gioberti.
Nel novembre 1833 giunse a Torino da Castelnuovo il giovane sacerdote Giuseppe Cafasso. Anch’egli si iscrisse alle conferenze di San Francesco e dopo pochi mesi Guala lo invitò a prendere abitazione nel convitto. Si tenevano allora due conferenze, una pubblica al pomeriggio tenuta dal rettore, l’altra interna il mattino. Cafasso fu subito tenuto in gran conto dal Guala che divenne suo confessore, come testimoniò, tra gli altri, don Bosco. Lo inviò, fin dai primi tempi, nelle Carceri Senatorie, dandogli sovente del tabacco che poi il santo distribuiva ai detenuti per procurarsi l’attenzione e dar loro un po’ di sollievo. Il 27 giugno 1838 San Cafasso, superato l’esame per poter confessare, fu festeggiato pubblicamente in convitto dal rettore. Già dagli anni 1836-37 al Santo fu dato l’incarico delle conferenze private. Nel 1841 giunse al Convitto, su suo invito, il giovane sacerdote Giovanni Bosco che proprio l’8 dicembre di quell’anno, in San Francesco, diede inizio alla sua missione educativa verso i giovani oggi diffusa nel mondo.
Nel 1843-44, malfermo in salute, don Luigi abbandonò l’insegnamento, affidando al suo fidato coadiutore anche le conferenze pubbliche. Vi accorrevano molti preti della città. Ad un certo punto la malattia gli impedì di celebrare la Messa. Posto su un seggiolone, era quasi impossibilitato a muoversi. I convittori andavano nelle ore libere a tenergli compagnia, ed egli piacevolmente si intratteneva con loro. Qualche volta si faceva portare in giro per le aule, confortato dal fatto di lasciare in buone mani la sua opera. Nel 1848, sull’onda delle sommosse popolari, il convitto subì degli attacchi e persino fu perquisito da sei poliziotti l’alloggio del rettore che, a seguito di tale umiliazione, vide peggiorare le condizioni di salute. Quell’estate andò ancora a riposare a Rivalba e alla cascina di Pozzo Strada. Il giorno del suo onomastico fece testamento nominando erede San Cafasso. Nel successivo mese di novembre fu colpito da apoplessia. Visse per un mese in uno stato di sonnolenza. Il 4 dicembre chiese l’olio santo, il giorno seguente, dopo aver assistito alla messa, ricevette il viatico. Saputo che stava per morire, alcuni esagitati si appostarono sotto la finestra del convitto al grido “abbasso il gesuitante”. Don Cafasso andò in strada e li calmò. Al mattino del 6, poco dopo le 7, spirò, assistito dal santo e da pochi altri convittori.
La salma, vestita degli abiti sacerdotali, posta sul seggiolone, ricevette la visita dei convittori. Fu presa la maschera funebre, ma il suo volto era già stato fatto effigiare dalla Marchesa di Barolo in veste di s. Alfonso in un quadro che la nobildonna donò alla chiesa di s. Francesco. Al rito funebre partecipò una moltitudine di sacerdoti, quattrocento in cotta, altri al seguito, i professori dell’Università in toga, centocinquanta Rosine, la Congregazione degli Artisti, alcuni staffieri della Real Casa, molti fedeli, popolani e nobili. Fu inumato nel Campo Santo di Torino, la municipalità aveva negato il permesso di sepoltura in san Francesco. Gioberti, che non vedeva di buon occhio il convitto, dichiarò che il suo fondatore era stata persona rispettabile. Il funerale di trigesima, voluto dal Cafasso, fu solennissimo, con il catafalco della Confraternita del Sudario.
A quella scuola di santità che fu il Convitto, poi trasferito presso il Santuario della Consolata, si formarono eccellenti sacerdoti il cui operato, negli anni a venire, andrà ben oltre i confini della città di Torino e del Piemonte.


Autore:
Daniele Bolognini

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Aggiunto/modificato il 2011-05-28

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