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Suor Rosalia Sismonda Cofondatrice

Testimoni

† 15 dicembre 1903


Rosalia Sismonda nacque a Torino da famiglia benestante. Era nipote, da parte di padre, del parroco di Sciolze (Torino), don Stefano Sismonda. Era assai gracile di salute; colta, pur non avendo frequentato scuole particolari; fine, abilissima nel disegno, nella pittura, nel ricamo.
Intelligente, mite, dalla Fede accesa, seppe, fin da piccola, unire la preghiera al lavoro, che svolgeva nella casa dello zio, soprattutto nella stagione estiva. I genitori la mandavano volentieri da don Stefano perché si distraesse dall'idea di farsi monaca.
Per tutta la vita Rosalia ebbe un trasporto particolare per la parola di Dio. Seguiva la predica con grande attenzione e, alcune volte, andava a chiedere spiegazioni al sacerdote che aveva tenuto l’omelia. Rimaneva particolarmente colpita dalla predicazione don Clemente Marchisio (Racconigi, Cuneo, 1 marzo 1833 - Rivalba Torinese, 16 dicembre 1903), beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 30 settembre 1984 (le sue spoglie sono venerate nella parrocchia di Rivalba).
Preghiera, meditazione e riflessione sulle prediche del beato Marchisio ebbero in lei un grande ascendente, la condussero a desiderare intensamente ad abbracciare la vita religiosa. Confidò il suo desiderio a don Clemente, che aveva grande stima e considerazione di Rosalia.
Intanto le Suore Albertine, fondate dal beato Federico Albert, partirono da Rivalba. Dietro consiglio dell’Arcivescovo di Torino, monsignor Gastaldi, don Clemente affidò il laboratorio tessile per le giovani (gestito dalle Albertine) ad alcune tra le migliori ragazze che vi erano impegnate. Era il nucleo di una nuova famiglia religiosa: l’Istituto delle Figlie di San Giuseppe. Rosalia Sismonda, conosciuta due anni prima a Sciolze, diventerà il braccio destro del beato Marchisio.
Don Clemente domandò consiglio a padre Felice Carpignano, parroco della chiesa oratoriana di San Filippo a Torino, che gli fu sempre amico e confidente spirituale ed ebbe una grande parte e un grande merito nella fondazione dell'Opera creata da don Marchisio.
Il 19 agosto 1875 padre Felice gli espose chiaramente il suo pensiero in una lettera: «Ho letto, riletto, e ponderato il nuovo progetto della prova di due anni che V. S. Rev.ma intenderebbe fare riguardo a quelle sue intenzioni manifestatemi e che sono oggetto di tante sollecitudini e di tanto zelo della S. V. Rev.ma. E, se questa prova si possa fare facilmente senza, far parlare il paese, e suscitare qualche cosa di sinistro, ciò che non mi pare, ed escludo questo pericolo, io l'approvo e la riconosco come una buona ispirazione che la bontà del Signore volle dare al cuore di Vostra Reverenza».
Fu così che il 12 novembre 1875, in una piccola casa di Rivalba, quattro ragazze emisero voti privati senza indossare una particolare divisa, dando inizio, sotto la guida del loro parroco, alla futura Congregazione delle Figlie di San Giuseppe. Si trattava di un inizio povero, difficile e anche incerto.
Intanto Rosalia espresse ai genitori il suo desiderio di entrare nel monastero delle Clarisse di Torino. Il padre negò l’assenso con risolutezza. La giovane racchiuse la risposta nel suo cuore, ritirandosi, piangente, nella sua camera. Sua madre le consigliò di rivolgersi a padre Felice Carpignano, amico del parroco di Sciolze e di don Marchisio. Fu proprio padre Felice, conoscendo l'ardente amore di Rosalia per il Santissimo Sacramento a suggerirle di entrare nell'Opera di don Clemente.
Era il 7 agosto 1876 quando la trentenne Rosalia giunse a Rivalba, festa di san Gaetano Thiene, chiamato il santo della Provvidenza. Al fondatore non sfuggì questa coincidenza e volle che san Gaetano fosse scelto fra i protettori dell'Istituto e, ogni anno, ne venisse solennizzata la festa. Rosalia portò una dote abbondante e questo fu ritenuto un gesto buono di san Gaetano, nelle molte difficoltà economiche dell'Opera.
Rosalia, votata alla santità, si sottomise, pur essendo stata designata come guida e maestra della piccola comunità, ad ogni umile e faticoso lavoro, sforzandosi di precedere col buon esempio. Vestiva dimessamente e non trovò nessuna difficoltà a recarsi, ogni volta che ce ne fosse stato bisogno, a Torino, col carretto per portare a destinazione i lavori tessili eseguiti.
Commuoveva la sua umiltà, sia in mezzo alle figlie che con il padre fondatore o nel trattare con la gente. Semplice e disinvolta, premurosa e comprensiva. Erano queste le caratteristiche che la distinguevano e per le quali attirava stima e affetto.
Fu Rosalia, cofondatrice dell’Opera, a confezionare il primo abito religioso delle Figlie di san Giuseppe: semplice e decoroso. Il 16 giugno 1877 padre Felice donò alla piccola Congregazione un quadro ad olio, opera di Lorenzoni, rappresentante la Sacra Famiglia al lavoro. E proprio in quel sabato di giugno, sempre padre Felice, impose l'abito religioso alle nuove Suore alla presenza del beato Marchisio, commosso e con la festa negli occhi e nel cuore.
Le quattro nuove religiose erano: suor Rosalia Sismonda di Torino, suor Margherita Ronco di Racconigi, suor Teresa Bonino di Moncucco torinese e suor Lucia Gribaudi. Padre Felice raccomandò loro di imitare la vita della Sacra Famiglia e di santificarsi nella preghiera e nell'umiltà.
Suor Rosalia lasciò Rivalba  perché destinata all’Opera che veniva aperta a Torino. Fu contenta per due ragioni. Torino era la sua città, meglio, la «città del SS. Sacramento» e poi avrebbe potuto, più facilmente, vedere suo padre.
La sua vita religiosa, a Torino, trascorse come a Rivalba: nella preghiera, nel lavoro, nel silenzio. Cercò di precedere le consorelle nel buon esempio e, per sé, di proseguire in quello spirito di sacrificio in cui voleva santificarsi e che continuerà anche a Novara,  Venezia,  Roma.
Il 1° settembre 1891 don Clemente accompagnò suor Rosalia a Venezia, perché era stata eletta Custode della nuova casa, casa che otterrà i plausi di san Pio X, il quale ebbe a dire: «Beati noi se tutte le religiose fossero come le Figlie di San Giuseppe».
Verso i primi di dicembre del 1903 comprese che la sua vita terrena stava per chiudersi, infatti le forze venivano meno e, colpita da una prostrazione generale, fu costretta a mettersi a letto. Verso le 21 del 14 dicembre due Suore andarono ad avvertire il padre fondatore  che suor Rosalia aveva avuto un forte attacco cardiaco e che ora desiderava vederlo; ma don Clemente si sentiva male e disse che non sarebbe riuscito a salire fino alla Casa Madre, nel castello di Rivalba, dove si trovava suor Rosalia. Alla sera la malata peggiorò e verso le dieci chiese della Madre Custode Generale. Le risposero che era indisposta e che non si sentiva di salire le scale. Si trattava di una bugia pietosa... Suor Rosalia rispose prontamente: «No, non è che la Rev.da Madre stia male, ma essa è giù in casa del Rev. Padre che questa notte deve... morire. Me lo sento nel cuore. Povero Padre! ». Nessuno le aveva detto che era ammalato. Padre Marchisio morirà alle 5,30.
Verso le 23 l'inferma era agli estremi: le suore corsero in canonica in cerca del vice parroco, don Giuseppe Meotti, il quale non voleva assentarsi perché stava assistendo don Clemente. Ma quest’ultimo comprese di che cosa si trattava, perciò, con un cenno, lo pregò di andare al castello.
Suor Rosalia ricevette l'ultima assoluzione e l'ultima benedizione e verso le 3 del mattino spirò: due ore e mezzo prima del padre fondatore.
«Hanno lavorato insieme per Gesù, per provvederlo di una materia degna del. SS. Sacramento. Tutto per Lui hanno dato, cuore, ingegno, volontà, non risparmiandosi ad immense fatiche, e il premio giunse per entrambi nello stesso giorno», così si espresse una figlia di San Giuseppe.
I funerali di suor Rosalia si svolsero al castello di Rivalba il 17 dicembre, in forma privata. Oltre alle consorelle, erano presenti pochi parenti e paesani. Tutti gli altri andarono alle esequie di don Clemente Marchisio e il velo d’umiltà si dipanò anche per la sepoltura; fu, infatti, posta nel cimitero del paese in un luogo a caso, per cui le sue spoglie sono andate smarrite, travolte dal tempo.
Suor Rosalia visse e morì nel nascondimento, compiendo grandi cose al servizio del Signore e con un linguaggio, carico di mistero, continua a insegnare, come spiega il profeta Qoelet, che tutto è vanità e che Dio può essere veramente amato soltanto dimenticando se stessi.
 


Autore:
Cristina Siccardi

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Aggiunto/modificato il 2010-09-18

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