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Padre Roberto De Nobili Missionario gesuita

Testimoni

Montepulciano, settembre 1577 – Madras, 16 gennaio 1656


L’esiguità dei numeri è ingannevole. Anche se sono solo 24 milioni, pari ad appena il 2,34 per cento della popolazione indiana, tuttavia l’influenza dei cattolici in India non si esaurisce in queste cifre, ma comprende e si nutre della storia complessa e articolata dei rapporti fra la Chiesa, il ricco panorama religioso indiano e le sue implicazioni sociali.
La storia della presenza cristiana in India è molto antica e si tende a farla risalire addirittura all’apostolato di san Tommaso e dunque al I secolo d.C.; e altrettanto antica è la storia delle missioni cristiane, che conosceranno una grande fioritura nel tardo Medioevo, quando la cosiddetta pax mongolica renderà possibile l’ingresso di missionari cristiani in regioni soggette in precedenza a sovrani islamici. Tuttavia, sarà solo con la dominazione portoghese, nel Cinquecento, che lo slancio missionario porterà a un più intenso contatto fra la cultura occidentale e quella orientale, che non sarà sempre declinato nei termini di un dialogo ma, anzi, sarà spesso foriero di persistenti pregiudizi.
Con l’istituzione del Padroado - e cioè di un insieme di privilegi, cui erano connessi dei doveri, concessi dalla Santa Sede al re del Portogallo - il Papa demandò compiti di espansione del cristianesimo, e quindi di direzione e organizzazione dell’attività missionaria, al re del Portogallo. Di qui, una notevole commistione tra affari civili ed ecclesiastici, ma anche il conflitto con il dicastero romano di Propaganda Fide (istituito nel 1622 da Gregorio XV) che, in seguito all’istituzione del Vicariato apostolico per l’Oriente, non riconobbe il diritto di patronato sui territori che non erano mai stati conquistati dai portoghesi, sui Paesi che avevano conservato la loro indipendenza ed erano governati da principi nativi e sugli ex domini portoghesi, ora occupati da olandesi e inglesi.
I pochi preti che andarono in India nei primi anni del XVI secolo si dedicarono prioritariamente alla cura spirituale dei portoghesi; fu solo a partire dal 1516 che cominciò ad essere percepita la presenza di missionari lusitani. A partire dal 1540 la politica religiosa seguita a Goa muta sensibilmente nella direzione di una crescente intolleranza nei confronti delle pratiche di culto indiane e l’arrivo di Francesco Saverio sull’isola, il 4 maggio 1542, dà il via al processo di conversione in massa della popolazione locale. Nel 1606 il V Concilio goano sembra mitigare i più rigidi decreti dei precedenti concili, adeguando alla realtà sociale delle colonie portoghesi gli irreali disegni di conversione totale, che alcuni religiosi, e soprattutto i gesuiti, continuavano a nutrire.
Ciò che emerge come tratto caratterizzante la politica religiosa perseguita dai portoghesi è il tentativo di fare dei loro convertiti non solo dei buoni cristiani ma soprattutto dei buoni portoghesi: assumevano nomi e cognomi lusitani, acquisivano le abitudini dei colonizzatori, si vestivano come i portoghesi.
I portoghesi stavano offrendo un’immagine particolare del cristianesimo: esso risultava essere il culto proprio ed esclusivo della casta abietta dei paranghi-portoghesi. Nel catechismo scritto e stampato in tamil la domanda: «Vuoi divenire cristiano?» era stata tradotta con: «Vuoi tu divenire paranghi?».
Un tentativo, per quanto ambiguo e contrastato, di superamento della politica lusocentrica seguita a Goa fu perseguito dal gesuita Roberto De Nobili (nel tondo in apertura), il quale si fece artefice di una «rivoluzione epistemologica» che, infrangendo l’etnocentrismo europeo, fu capace di declinare il cristianesimo nella cultura indiana.
De Nobili arrivò in India nel maggio del 1605, diretto alla missione di Madura, uno dei pochi luoghi del sud dell’India, i cui governanti erano indù e che, in teoria, non sarebbe dovuta rientrare nel Padroado. Si trattava di una città con una ricchissima tradizione di studi.
De Nobili, nella sua opera di apostolato, si fece promotore del cosiddetto «metodo dell’adattamento», secondo il quale viene lasciato ai neofiti tutto ciò che non rientra in palese contraddizione con l’ortodossia cattolica. Elemento primo e fondamentale caratterizzante il metodo voluto e studiato da De Nobili e da padre Alberto Laerzio, più vecchio di circa vent’anni e missionario in India sin dal 1579, era il fatto che il predicatore facesse, innanzitutto, aperta dichiarazione di non appartenere alla casta dei paranghi.
È evidente che questa scelta fu determinata dalla comprensione del funzionamento del sistema castale indiano e da una sensibilità destinate a diventare strategia universale dell’attività missionaria. Le lettere e gli scritti che De Nobili mandò a Roma dimostrano uno studio attento e capillare della società indiana.
Veniva, in secondo luogo, la dichiarazione di essere uomo religioso, consacrato in modo assoluto alla pratica di tutte le virtù, specie della continenza e della penitenza e di essere un insigne guru, maestro sommamente sapiente, conoscitore profondo di tutte le scienze ed arti, specie delle scienze sacre, e avente come missione nella vita e come scopo del sapere il compito d’indirizzare gli uomini al culto di Dio.
De Nobili si adoperò anche nell’abolire qualsiasi consuetudine o costume civile portoghese, facendo proprio il modo di vivere sociale non solo delle caste più alte degli indiani, ma soprattutto imitando il modo di vivere dei sannyasi, i rinuncianti del panorama religioso e sociale indù. Indossava perciò una veste zafferano, si faceva servire da domestici brahmani, si lavava il corpo due volte al giorno, specie prima della Messa, si cospargeva la fronte di polvere di sandalo e si ornava il petto col cordone sacro.
Inoltre, padre De Nobili aveva separato la sua chiesa e la sua casa da quelle del padre Gonzalo Fernandes, un gesuita portoghese che lavorava a Madura da più di un decennio con scarsissimo frutto di conversioni. Con molta difficoltà De Nobili permetteva ai suoi cristiani di avere rapporti coi cristiani dell’altra comunità o di stare insieme durante le funzioni. Agli indiani convertiti De Nobili permetteva, invece, che continuassero a fare uso del cordone nobiliare, della polvere di sandalo per cospargersi la fronte e delle abluzioni come, d’altra parte, faceva lui stesso. Non si opponeva, inoltre, che portassero il kudumi o ciuffetto di capelli lasciato crescere in fogge diverse a seconda della casta a cui appartenevano.
Il metodo di De Nobili fu presto denunciato da padre Fernandes a padre Nicolao Pimenta, nominato Visi tatore delle due Province religiose di Goa e del Malabar, che chiese a una commissione di gesuiti locali, passati alla storia come i teologi di Goa, di pronunciarsi sulla liceità del suo comportamento; nel luglio del 1610 essi si espressero in favore della condanna del suo metodo in quanto non apostolico.
Le pratiche che accentrarono l’attenzione dei censori di De Nobili furono quattro e passarono alla storia come i riti malabarici: la pratica di indossare il cordone sacro, yajnopavita, l’uso del sandalo, il ricorso a frequenti abluzioni e l’acconciatura e l’abbigliamento brahmanico.
L’uso di cingersi del cordone brahmanico, che dalla spalla sinistra scende sul fianco destro, rappresenta un segno esteriore e visibile di una grazia interiore e spirituale. L’investitura con il cordone sacro, o upanayana, è una cerimonia che segna l’inizio del percorso di istruzione di un individuo.
De Nobili formò il suo cordone di 5 invece che di 3 fili: 3 in oro e 2 argento con una croce sospesa nel mezzo, i tre fili d’oro rappresentanti la Santa Trinità, i due d’argento il corpo e l’anima della umanità adorabile del Cristo e della croce, che evoca la morte e la passione del Salvatore.
In seguito alla cerimonia dell’upanayana, il discepolo entrava in una sorta di identificazione mistica con il guru. L’istituzione del guru, a cui si richiamava De Nobili per definire il proprio ruolo, continua a essere molto sentita in India: qualora la santità del guru sia riconosciuta da unanime consenso, la sua parola viene ad avere il medesimo valore dei Veda (antichi testi sacri indù) e ne consegue che l’atto religioso più pio e meritorio consiste in una completa sottomissione al guru.
Il missionario sostiene, basandosi su san Tommaso d’Aquino, che le azioni in sé non sono né buone né malvagie, ma acquisiscono la loro valenza morale dalla volontà di chi le pone in essere e gli emblemi castali, aventi un carattere prevalentemente civile, non incidono sul dato religioso. Ad ogni modo il metodo di De Nobili non venne compreso nei suoi presupposti, che altro non fanno che riprendere l’insegnamento più autenticamente apostolico così come fu caratterizzato da san Paolo, anticipando quella tendenza all’inculturazione, che sarà ripresa dal Concilio Vaticano II.
Nella sua seconda Apologia De Nobili non esita a fare ampio uso del suo ricchissimo patrimonio culturale indiano nello sforzo di comunicare agli altri quella evidenza più convincente e chiara da lui acquisita in dieci anni di studio delle fonti e di contatti umani nel cuore della società indiana. La Informatio è il trattato non solo più lungo tra gli scritti del De Nobili ma anche il più dotto: per la ricchezza del contenuto essa assegna al suo autore il primo posto tra i pionieri nell’indagine a livello scientifico dell’origine, dell’evoluzione e della natura della complessa società indiana e ne fa uno dei maggiori indianisti di ogni tempo.
Nella terza Apologia, De Nobili procede a una esposizione dei principi fondamentali su cui era stata fondata la missione di Madura e sui quali si reggeva: l’ultimo e il miglior trattato di De Nobili in materia di adattamento missionario. Egli prova come la prassi della Chiesa, a cominciare da Gesù e dai suoi apostoli, sia stata sempre ispirata a comprensione e condiscendenza verso le persone e i popoli da convertire al Vangelo.
La controversia proseguì fino al 1744 quando Papa Benedetto XIV, nella sua bolla Omnium sollicitudinum, vietò ogni concessione al costume locale. Fu imposto a tutti i missionari un giuramento di sottomissione e venne proibita ogni ulteriore discussione sull’argomento. Le conseguenze di questa miopia apostolica furono devastanti per i cattolici di India e Cina: alle persecuzioni da parte delle autorità statali si unì la perdita di efficacia della stessa attività dei missionari. Solo nel 1939 Pio XII abrogò il giuramento del 1744: la consapevolezza adombrata da De Nobili rispetto alla necessità che la fede sia pensata, formulata e vissuta in ogni cultura umana è stata acquisita.
L’opera di De Nobili, oltre a fornire l’esempio di un’intelligente presenza apostolica, ebbe degli esiti molto felici anche dal punto di vista più strettamente culturale: grazie all’importanza assegnata alla conoscenza delle lingue locali, la missione di Madura divenne un’area in cui rifiorì la letteratura tamil scritta.
Si deve in particolar modo all’opera di un altro gesuita della stessa missione, ma di circa un secolo posteriore, l’evoluzione della letteratura tamil e il suo ingresso nella modernità. Quest’altra grande figura di missionario che declinò la sua opera di evangelizzazione nel senso di un incontro e di un dialogo fra culture, questa volta più letterario che teologico,  è padre Costantino Beschi.
Padre Beschi giunse in India nel 1710. Grande latinista e studioso d’ebraico, può considerarsi come uno dei più grandi conoscitori della lingua e della letteratura tamil se non addirittura il fondatore della filologia tamil. Padre Beschi è uno degli autori classici della letteratura tamil: le sue opere sono numerosissime ma fra queste occorre senz’altro ricordare il suo Paramarta-Kuru, che è unanimemente considerato il primo esemplare di prosa e nel contempo la prima autentica opera satirica in tamil.
Mentre il Paramarta-Kuru narra le umoristiche traversie di uno sciocco eremita e dei suoi stolti discepoli, in cui tornano alla luce apologhi di Esopo conditi da particolari nuovi e locali, il più ambizioso lavoro di padre Beschi è senz’altro il suo Tembavani, un’epopea in 36 canti e 3.615 quartine sulla vita di san Giuseppe. Padre Beschi tradusse in tamil diciotto canti della Gerusalemme Liberata, opera che gli valse il titolo di Viramamuni (l’eremita coraggioso). Si tratta della prima volta che un poema italiano viene fatto conoscere in India e bisognerà attendere ancora un secolo perché altri capolavori della nostra letteratura vengano tradotti o studiati dagli indiani e questa volta sarà per opera di letterati e riformatori del Bengala. Beschi contribuì in maniera originale allo sviluppo della letteratura tamil, e rispetto alle opere scritte dai missionari che lo precedettero e da quelli che lo seguirono, non si dedicò a traduzioni piane e semplici di manuali religiosi ma declinò la propria conoscenza della lingua in vera e propria letteratura. Tra i molti meriti di padre Beschi bisogna ricordare la compilazione di svariati dizionari latino-tamil, che possono considerarsi come la base di tutti quelli che vennero scritti in seguito, oltre a un’esauriente grammatica.


Autore:
Maria Angelillo


Fonte:
www.missionline.org

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Aggiunto/modificato il 2010-10-30

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