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Beati Martiri di Damasco

10 luglio

† Damasco (Siria), 10 luglio 1860

Martirologio Romano: A Damasco in Siria, passione dei beati martiri Emanuele Ruíz, sacerdote, e compagni, sette dell’Ordine dei Frati Minori e tre fratelli fedeli della Chiesa Maronita, che, con l’inganno consegnati ai nemici da un traditore, furono sottoposti per la fede a varie torture e conclusero il loro martirio con una morte gloriosa.


La Palestina rimase una provincia di Bisanzio fino all'invasione dei Persiani (614) e fu meta, dall'imperatore Costantino il Grande in poi, di continui pellegrinaggi da parte dei cristiani. Nel 637 cadde in potere dei musulmani e vi rimase, salvo l'intervallo dei Crociati (1099-1187), fino al 1918, quando passò sotto l'Inghilterra come potenza mandataria.
I custodi dei Luoghi Santi furono i figli di S. Francesco di Assisi, che nel 1219 aveva predicato il Vangelo al sultano d'Egitto. Essi provvidero a conservare e a restaurare le basiliche cristiane, e si presero cura dei pellegrini e dei fedeli residenti nei maggiori centri del vicino Oriente. Fin dal secolo XVI aprirono conventi e scuole gratuite un po' dovunque, non esclusa Damasco, la capitale della Siria, attesero alla conversione dei musulmani e alla riunione dei cristiani dei vari riti alla Chiesa Cattolica. I papi più volte riconfermarono ai francescani la loro fiducia e concessero ad essi le necessarie facoltà per il governo delle comunità cattoliche che venivano costituendo.
Nel corso dei secoli i Francescani di Terra Santa ebbero a subire massacri, vessazioni ed espulsioni, ma il loro amore per la terra di Gesù non venne mai meno. Nel luglio del 1860 essi affrontarono, a Damasco, una persecuzione molto sanguinosa da parte dei drusi musulmani, sostenuti dalle locali autorità turche. Alcuni anni prima (1853-1855) era stata combattuta in Crimea una guerra, dalla Turchia ed i suoi alleati francesi, inglesi e piemontesi contro la Russia perché questa potenza mirava al predominio esclusivo sui Luoghi Santi ed allo smembramento dell'impero ottomano. Le fu posto termine con il congresso e il trattato di Parigi (1856) in cui la Turchia, per la prima volta nella storia, fu riconosciuta come potenza avente la stessa personalità giuridica degli stati cristiani, ed il sultano fu costretto a riconoscere la libertà di culto per qualsiasi comunità religiosa residente nel suo impero e ad ammettere ai pubblici uffici tutti i sudditi, senza distinzione di razza e di culto.
Per i musulmani quel gesto significò un oltraggio al Corano, perciò non si limitarono a protestare, ma invitarono tutti i correligionari a reagire contro la politica del Sultano. Tra le impervie montagne del Libano l'ostinata avversione dei drusi musulmani per i cristiani tutto poté osare, benché il governatore generale, Khursud Pascià, residente a Beiruth, facesse credere ai vescovi che avrebbero preso provvedimenti in difesa della giustizia. Per scatenare l'ira dei nemici dei cristiani, nei primi mesi del 1860, bastò un lieve incidente tra due ragazzi, uno druso e l'altro maronita. I villaggi cristiani furono allora invasi e dati alle fiamme, ed i fanciulli, le donne ed i vecchi massacrati senza pietà.
Anche a Damasco, popolata da circa 150.000 abitanti, i drusi si scagliarono contro i cattolici. Costoro erano assistiti da diverse famiglie religiose, tra cui i Francescani i quali, oltre la cura spirituale dei latini indigeni o stranieri, vi mantenevano la scuola parrocchiale e le opere di assistenza ai pellegrini e ai poveri. Chi prese le difese dei perseguitati fu l'emiro Abd-el-Kader, algerino di nascita, sopraffatto dai francesi nel 1847 e costretto ad esulare con oltre 2.000 compagni d'arme. A Damasco, dove aveva stabilito la sua residenza, era molto stimato e temuto. Risoluto di opporsi agli assassini con tutte le forze, armò 1.200 dei suoi soldati, ma prima che facesse in tempo ad accorrere si verificò una parziale carneficina.
I cattolici di vari riti residenti a Damasco in quel tempo potevano essere circa 10.000. All'avvicinarsi della tempesta molti cercarono un rifugio altrove, i più restarono confidando che l'intervento dei consoli esteri e dell'emiro avrebbe scongiurato ogni violenza. La vigilia del 9 luglio 1860 si avvertì che stava per accadere qualche cosa di grave. Dalle moschee partivano parole incendiarie, e gruppi sospetti di drusi e di musulmani percorrevano le vie del quartiere cristiano cantando: "Oh, com'è dolce, oh, com'è soave massacrare i cristiani!". Per meglio provocarli segnavano di croci le strade e li costringevano a calpestarle passando. Alcuni giunsero persino ad appendere al collo di cani randagi delle croci e costringere i cristiani ad inginocchiarsi davanti a loro per adorarle.
Da poco era passato il mezzogiorno del 9 luglio quando, improvvisamente, una turba inferocita si riversò nelle vie. Il primo fulmineo assalto essa lo rivolse alla residenza del Patriarcato Greco non unito. Non un angolo del quartiere sfuggì alle devastazioni e ai saccheggi. Ai primi rumori accorse Abd-el-Kader con le sue pattuglie, ma invece di impegnare una battaglia contro i facinorosi, cercò di mettere in salvo nel suo palazzo e nella cittadella il più grande numero possibile di cattolici con i Gesuiti, i Lazzaristi, le Figlio della Carità e gli alunni delle scuole.
Il superiore dei Francescani, P. Emmanuele Ruiz, non ebbe la preoccupazione di rifugiarsi nel palazzo dell'emiro, come avevano fatto gli altri religiosi, perché le mura del convento erano solidissime e le porte di accesso alla chiesa e al chiostro protette da grosse lamine di ferro. Il tentativo degli insorti di forzare l'ingresso era difatti fallito. Dietro il convento si apriva una porticina alla quale nessuno aveva pensato. Fu segnalata alla plebaglia da un ebreo traditore, domestico dei francescani e beneficato da loro, ed essa, dopo mezzanotte, irruppe urlando nel convento.
Il primo a cadere vittima dell'odio degli insorti fu proprio il P. Emmanuele Ruiz, nato il 5-5-1804 a San Martino de las Ollas, nella provincia di Santander (Spagna). Fin dai primi anni aveva dato prova di una fervente pietà e di una inesauribile carità verso i poveri. Nel 1825 vestì il saio francescano e, appena ordinato sacerdote (1831), chiese di essere inviato in terra di missione. A Damasco apprese con sorprendente rapidità la lingua araba tanto che fu presto capace di fare scuola e di predicare. Dimentico di sé non viveva che per le anime. Era talmente imperturbabile nelle difficoltà che tutti lo chiamavano Padre Pazienza. Per la malferma salute più volte fu costretto a ritornare in Europa. Una volta soggiornò pure nel convento di S. Francesco, a Lucca, dando luminosi esempi di ubbidienza e di regolare osservanza.
Al momento della persecuzione la sua comunità era composta di sei padri e due coadiutori. Già il 2 luglio egli aveva scritto al P. Procuratore di Terra Santa: "Noi ci troviamo in grave pericolo. La nostra fede è minacciata dai drusi e dal Pascià, che somministra loro i mezzi necessari per dare la morte a tutti i cristiani senza distinzione, siano essi europei od orientali". E terminava la lettera dicendo: "Ma, innanzi tutto, si compia la volontà di Dio!". Appena la plebe aveva invaso il quartiere cristiano, il P. Ruiz radunò i religiosi in chiesa con i bambini della scuola parrocchiale ed alcuni fedeli, tra cui i tre fratelli Massabki, espose il SS. Sacramento e invitò tutti ad adorarlo. I padri si impartirono a vicenda l'assoluzione, si comunicarono e attesero fiduciosi gli eventi. Quando videro che i facinorosi erano penetrati in convento, il superiore corse in chiesa, consumò le sacre specie e si raccolse un attimo in preghiera. Qualcuno gli urlò in faccia: "Viva Maometto!... O tu, cane, abbracci la sua religione, o ti scanneremo". Il padre si alzò di scatto ed esclamò: "No, sono cristiano e voglio morire da cristiano!". Appoggiò lui stesso la testa sulla mensa dell'altare e poi disse agli assalitori: "Colpite". La vittima rotolò sulla predella in un lago di sangue. Sul pavimento, a pochi passi dall'altare fu trovato, intriso del suo sangue, il piccolo Messale arabo di cui si serviva per la traduzione dei Vangeli domenicali.
La seconda vittima fu il P. Carmelo Volta, nato il 29-5-1803 a Real de Candia, in provincia di Valenza. Era stato educato dagli Scolopi. Fattosi francescano, nel 1831 era stato mandato in Palestina e nominato curato di Ain-Karem in Giudea. Nel 1851 fu nominato superiore del convento di Damasco, ma poco tempo dopo gli fu assegnato l'ufficio di parroco e di professore di lingua araba ai giovani missionari. Al momento dell'invasione dei musulmani era riuscito a nascondersi. Alcuni suoi conoscenti lo scoprirono, gli offrirono sicurezza e ospitalità in casa loro a patto che si facesse maomettano, ma egli rispose loro, sdegnato: "Non avverrà mai che io mi faccia turco!...". Fu ucciso a colpi di mazza.
La terza vittima fu il P. Engelberto Kolland, nato il 21-9-1827 a Ramsau, frazione della parrocchia di Zeli, nella diocesi di Salisburgo (Austria). Fu accolto gratuitamente in seminario, ma per l'irrequietezza dopo quattro anni fu rimandato in famiglia. Frequentando la chiesa dei Francescani, concepì l'idea di condividerne il genere di vita (1847).
Durante il noviziato fu tanto mortificato da non bere mai vino, birra o caffè; durante gli studi fu così avaro del tempo da giungere a studiare sei lingue. Celebrò la sua prima Messa a Bolzano (1851), poi chiese di andare missionario conforme al voto che aveva fatto prima dell'ordinazione sacerdotale. La sua richiesta fu esaudita soltanto nel 1855. A Damasco fu dato quale coadiutore al P. Carmelo. Al momento della bufera fu tra i primi a dissuadere il superiore dal rimanere in convento. Non resistette però alla di lui volontà, ne pensò ad una fuga. Al momento dell'irruzione dei musulmani nel convento riuscì dal terrazzo a scendere in via, ma non a raggiungere il palazzo di Abd-el-Kader. Si nascose in una vicina casa di cristiani, una signora greco-cattolica gli gettò sulle spalle un grande velo bianco affinchè rimanesse nascosta la tonaca, ma venne riconosciuto dagli inseguitori dai sandali. Fu condotto nel cortile della casa. Uno degli assassini lo colpì con la scure alla testa gridando: "Abbandona la tua fede, e segui Maometto!". Il martire gli rispose con fierezza: "No, mai! sono cristiano e per di più sacerdote: potete uccidermi". Nel cortile risuonarono secchi quattro colpi di scure e altrettanti "No!" di P. Engelberto.
Gli altri tre sacerdoti francescani si trovavano a Damasco per studiare l'arabo. Il P. Nicanore Ascanio era nato il 10-1-1814 a Villarejo de Salvanes, nella provincia di Madrid, ed aveva ricevuto il saio francescano a sedici anni. Nel 1835 era stato costretto a ritornare nel mondo, in seguito alla soppressione delle famiglie religiose in Spagna. Aveva continuato a Villarejo i suoi studi e, appena ordinato sacerdote, si era dato con zelo alla predicazione ed alla direziono spirituale delle religiose Concezioniste di Aranjuez. Negli ultimi anni, prima di partire per la terra Santa, aveva trascorso le notti in preghiera. Dai familiari fu udito talora sospirare: "Ascanio, Dio ti chiama... ubbidisci alla sua voce!". Essa tacque soltanto quando annunzio pubblicamente che aveva scelto di partire per le missioni. Nel 1858 poté vestire di nuovo il saio francescano e l'anno successivo raggiungere Damasco per lo studio dell'arabo, alla scuola di P. Carmelo. Quando i musulmani lo arrestarono gli proposero di farsi maomettano, ma egli intrepido rispose: "Sono cristiano! Uccidetemi!".
Il P. Pietro Soler nacque il 28-4-1827 a Lorca, nella provincia di Murcia (Spagna meridionale). Studiò a prezzo di grandi sacrifici perché, per aiutare i genitori, dovette pure lavorare in uno stabilimento a Cuevas. Fu un apostolo tra gli operai. Amante della penitenza, di notte dormiva sopra una stuoia distesa accanto al letto. Non poté farsi francescano che a ventinove anni, quando cioè il governo spagnuolo permise che fosse aperto il collegio di Priego (1856), nella provincia di Cuenca, per la formazione dei missionari da inviarsi nel Marocco e in Terra Santa. A Damasco, nella notte del tradimento, fu visto, da un terrazzo attiguo al convento, attraversare il cortile con due ragazzi e nascondersi dentro la scuola parrocchiale. Fu inseguito, ma all'intimazione di farsi maomettano rispose: "Non sarà mai che io commetta tale empietà: sono cristiano e preferisco morire". Fu prima colpito al collo con la scimitarra e quindi pugnalato.
Il P. Nicola Alberca è il più giovane martire di Damasco. Nacque infatti il 10-9-1830 ad Aguilar de la Frontera, in provincia di Cordova. I suoi genitori, dei dieci figli che ebbero, ne consacrarono sei a Dio. Ancora giovanissimo si era iscritto alla Congregazione Ospitaliera di Gesù Nazareno, stabilita a Cordova. Trovandosi a Madrid, più volte manifestò la brama che sentiva di morire martire. A chi gli faceva osservare che ciò non poteva avverarsi non essendoci in vista nessuna persecuzione, rispondeva: "Neanch'io vedo come ciò possa avvenire: tuttavia ritengo fermamente che il mio desiderio sarà appagato". Quando fu accolto nel collegio di Priego fu invaso da "un delirio di felicità". Ai musulmani che, la notte del 9 luglio, gli avevano puntato contro un'arma da fuoco in un corridoio del convento e, pena la morte, lo avevano esortato a farsi maomettano, aveva gridato loro in faccia: "Soffrirò mille volte la morte piuttosto di tradire il mio Signore!".
Tra i martiri francescani di Damasco figurano pure due fratelli laici, Fra Francesco Pinazo, nato il 24-8-1802 ad Alpuente, in provincia di Valenza, ed entrato come oblato tra i Francescani di Cuciva (1822), dopo che era stato abbandonato dalla fanciulla che aveva sognato di fare sua moglie, e Fra Giangiacomo Fernandez, nato il 25-7-1808 a Moire, borgata di Garballeda, nella provincia di Orense (Galizia). Entrambi furono raggiunti dagli assassini mentre salivano le scale del campanile. Da un terrazzo vicino furono visti levare in alto le mani e lo sguardo, mentre i musulmani rompevano loro la spina dorsale a colpi di mazza. Dalla cella campanaria furono precipitati nel cortile sottostante. Fra Francesco morì all'istante, Fra Giangiacomo invece fu udito gemere fino a quando, sul far del giorno, un turco lo finì a colpi di scimitarra.
Con i Francescani furono pure massacrati tre fanciulli maroniti, Francesco, Abd-el-Mooti e Raffaele Massabki, rifugiatisi nel convento mentre i musulmani mettevano a ferro e a fuoco le case dei cristiani. Vivevano tutti assieme, patriarcalmente, benché i primi due fossero sposati ed avessero numerosissimi figli. Francesco, commerciante in seta, faceva da capo famiglia. La sua devozione e la sua ospitalità erano talmente apprezzate nel Libano che, quando vi giungeva, era accolto al suono delle campane. Mooti faceva scuola ai bambini della parrocchia. La neve non gl'impediva di recarsi alla chiesa con la figlia, futura suora di carità. Raffaele era scapolo e fungeva, nel monastero, da vice-sacrestano. La notte del 9 luglio furono sorpresi dagli assassini davanti all'altare. All'invito di farsi musulmani, Francesco rispose per tutti: "Noi siamo cristiani e vogliamo restare cristiani... Non abbiamo paura di coloro che uccidono il corpo, ma l'anima". Si rivolse quindi ai fratelli e disse loro: "Coraggio, state fermi nella fede. La corona in cielo è riservata ai forti. Noi non abbiamo che un'anima, giammai la perderemo rinnegando la nostra fede!".
L'impressione prodotta in Europa dalla strage di 6.000 cristiani nel Libano e di 1.000 in Damasco fu tanto grande che Napoleone III, imperatore della Francia, avrebbe voluto correre in Siria, con una spedizione militare, per vendicare l'oltraggio inferto alla civiltà cristiana. Coloro che organizzarono le uccisioni o, pur potendolo, non le impedirono, come il governatore di Damasco Ahmed Pascià, furono o fucilati o impiccati. La Turchia s'impegnò a pagare una indennità per i danni subiti dai cristiani e a ricostruire il loro quartiere devastato.
I corpi degli undici martiri furono collocati in un sotterraneo del convento, da dove furono estratti nel 1861 per essere collocati in due casse e sepolti in una tomba aperta nel pavimento della chiesa. I fedeli non tardarono a venerarli come martiri e ad ottenere grazie e miracoli a contatto delle loro reliquie. Nel processo canonico, un giovane greco-cattolico depose con giuramento: "Verso la mezzanotte mi accadde una volta di vedere il sotterraneo in cui riposavano i corpi dei francescani massacrati poco prima dai turchi, tutto illuminato. Chiamai allora Giorgio Cassar e suo figlio, essi pure, come me, nativi di Damasco e cristiani, insieme ad un musulmano, il quale dormiva in convento, e chiesi loro se ci fosse qualcuno nel sotterraneo e se conoscevano la provenienza di quella luce... Siccome mi risposero non esservi alcuno, prendemmo le chiavi per discendervi tutti e quattro. La porta si era appena aperta quando, proprio dal fondo, si alzò una colonna di fumo da cui si sprigionò un forte odore di incenso".
I martiri furono beatificati da Pio XI il 10-10-1926. Le loro reliquie sono venerate in Damasco nella chiesa dedicata a S. Paolo e officiata dai Francescani.


Autore:
Guido Pettinati

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Aggiunto/modificato il 2011-08-17

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