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Servo di Dio Josef Beran Cardinale

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Plzeň, Repubblica Ceca, 29 dicembre 1888 – Roma, 17 maggio 1969


La prima cosa che colpiva di Josef Beran era la sua sorridente serenità. Una serenità e una mitezza che non furono tolte al piccolo prete cecoslovacco, divenuto arcivescovo di Praga e primate di Boemia, dai cinque anni passati nei lager nazisti, né dalla persecuzione comunista che lo segregò e lo isolò per 14 anni, né dall’esilio a Roma, dove morì nel 1969 senza aver mai potuto far ritorno in patria. Infatti, rileggendo oggi le tante memorie di coloro che lo conobbero, tutti evidenziano che la cosa che stupiva di più era «il suo volto aperto, sereno, sorridente, una di quelle espressioni che non si possono dimenticare», per usare le parole di don Roberto Angeli, un sacerdote italiano che sopravvisse al campo di concentramento nazista di Dachau grazie all’aiuto di monsignor Beran.
E anche Paolo VI, che nutriva una grande considerazione e amicizia per Beran, in una lettera in latino che gli inviò per il suo ottantesimo compleanno, lo ringrazia «per la sua invicta fortitudo, la sua strenua fidelitas, insieme al suo carattere sempre mite pur in mezzo a tante prove, con una sempre amabilis sermonis comitas», come ha ricordato il cardinale decano Angelo Sodano il 16 maggio scorso, all’inaugurazione della mostra dedicata alla figura del cardinale Josef Beran, organizzata nella Pontificia Università della Santa Croce dall’ambasciata della Repubblica Ceca presso la Santa Sede. Il cardinale Sodano, che nel 1968, insieme al cardinale Agostino Casaroli, consegnò a Beran quella lettera autografa di Paolo VI, ha anche ricordato come «alcuni di noi della Segreteria di Stato cercavamo di farci raccontare qualcosa del suo passato, della prigionia a Dachau e dei lunghi anni di domicilio coatto nella sua stessa terra. Ma con mirabile serenità egli si schermiva e diceva che ormai tutto offriva al Signore, per la libertà e la pace della sua cara nazione». La mostra è anche l’occasione per ripercorrere la vicenda umana di Josef Beran, una delle personalità più importanti della Chiesa e della storia moderna ceca, morto nel maggio di quarantadue anni fa e per il quale nel 1998 è stata aperta la causa di beatificazione.

Tra Plzen e Roma

Josef Beran era nato a Plzenň il 29 dicembre del 1888. L’ambiente familiare gli aveva donato una profonda fede cristiana e sentimenti patriottici. Contribuì alla formazione del suo carattere anche la posizione sociale dei genitori, poiché il padre, con il suo stipendio di maestro di quella cittadina di provincia dell’Austria-Ungheria, riusciva a stento a sostenere una famiglia di sette membri. Un’esperienza che formò il carattere di Josef, la sua modestia, la sua semplicità e la sua sensibilità sociale. Entrato nel seminario di Plzen, dopo gli esami di maturità viene mandato dal vescovo a Roma per studiare alla Pontificia Università Urbaniana. Il 10 giugno del 1911 riceve l’ordinazione sacerdotale nella Basilica di San Giovanni in Laterano e, ottenuto il dottorato in Teologia, torna nella sua città natale, dove svolge il suo lavoro pastorale e di insegnante. Nel 1932 viene nominato rettore del seminario arcivescovile di Praga e professore dell’Università Carolina.
Con l’avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933, però, la situazione politica e sociale nell’Europa centrale si complica. Anche a Praga iniziano disordini causati dalle rivalità etniche tra cechi e sudeti di lingua tedesca, che si ripercuotono anche sul seminario arcivescovile. E dopo il Patto di Monaco del 1938, con l’annessione da parte della Germania di vasti territori della Cecoslovacchia e l’instaurazione del protettorato di Boemia e Moravia, la situazione inizia a precipitare. La Gestapo comincia a occuparsi intensamente del rettore Beran: non era certo passata inosservata la sua attività precedente all’annessione delle zone di confine cecoslovacche, né la sua resistenza all’ideologia nazista. La sua popolarità, il rispetto di cui godeva tra i fedeli erano sufficienti perché fosse ripetutamente chiamato a presentarsi a interrogatori e perché fosse minacciato d’incarcerazione. Minacce che si realizzarono nel 1942, dopo il riuscito attentato dei paracadutisti cecoslovacchi contro il rappresentante del protettorato del Reich in Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich, SS-Obergruppenführer e General der Polizei, alla morte del quale si verificarono arresti di massa della popolazione ceca. Agli inizi di giugno del 1942, Beran fece diffondere la voce che avrebbe celebrato una messa per gli ufficiali cecoslovacchi prigionieri dei tedeschi e che l’avrebbe fatto in lingua ceca, disobbedendo così alle direttive dei nazisti. Ma il 6 giugno la Gestapo lo arrestò perché «sovversivo e pericoloso». Ne conseguì una perquisizione domiciliare, un brutale interrogatorio nella sede praghese della Gestapo e l’incarcerazione nella prigione di Pankrác. Venne poi mandato a spaccare pietre nella terribile Fortezza di Terezín e da lì fu portato, il 4 settembre del 1942, nel campo di concentramento di Dachau, dove resterà fino alla liberazione da parte degli alleati nell’aprile del 1945.

Gli anni a Dachau

A Dachau erano rinchiusi 2.720 ecclesiastici di 134 diocesi e 24 nazioni dei territori occupati, giudicati pericolosi. Nel certificato del carcere relativo a Josef Beran, come motivazione della sua prigionia era ricordato il «pericolo che mantenga i contatti con gruppi sciovinistici e nemici del Reich». Fu relegato nel blocco degli ecclesiastici cechi, il numero 28, e ricevette il più importante segno di riconoscimento per tutto il soggiorno nel campo: il numero di matricola 35.844. Monsignor Beran trascorse a Dachau quasi tre anni. In base ai ricordi dei compagni di prigionia, tra migliaia di sacerdoti imprigionati di varie nazionalità eccelleva per la sua purezza e gentilezza. Malgrado la totale penuria, regalava disinteressatamente ciò che poteva, non disperava né si lamentava. Molti ecclesiastici già allora nel lager videro in Beran il futuro arcivescovo di Praga, come scrisse in seguito il sacerdote austriaco Johann Lenz: «Rimane indimenticabile la sua amorevole modestia, l’alta intelligenza e il suo atteggiamento sovranazionale. Le sue posizioni, da ogni punto di vista, sacerdotale e sociale, lo avevano predestinato non solo a essere una guida della Chiesa, ma anche un martire, perseguitato da Satana e dai suoi seguaci».
Don Paolo Liggeri, anche lui reduce da Dachau, in un bell’articolo sull’Osservatore Romano del luglio 1992, ricorda: «Fu in quella specie di bolgia infernale che conobbi un uomo soavissimo e ricolmo di inalterata e sorridente serenità, il cecoslovacco Giuseppe Beran […]. Come poteva quel sacerdote che era già anziano della deportazione rimanere soave in quel tragico mondo di orrori fisici e morali? Era forse un individuo incosciente, insensibile, apatico? Bastava notare un certo lampeggiare di intelligenza nei suoi occhi miti e fieri ad un tempo, per comprendere che la sua quasi incredibile serenità proveniva da un suo mondo interiore, da una fede inalterabile […]. La sua umiltà silenziosa e la sua eccezionale forza d’animo ne fecero un punto di irradiazione e di fiducia. Molte crisi di disperazione furono vinte dal suo sguardo penetrante e dalla sua vigorosa stretta di mano». Liggeri, nel suo articolo riporta anche la testimonianza di altri sacerdoti italiani, come quella di don Angelo Dalmasso di Cuneo che ricordò di aver ammirato «un deportato, piccolo di statura, non più giovane, che dopo il ridottissimo pasto serale si inginocchiava sul nudo pavimento della baracca 26, quella dei sacerdoti, trasformata in cappella, a recitare il breviario devotamente raccolto come se fosse stato in una basilica».
Il 29 aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della guerra in Europa, il campo di Dachau viene liberato dalle truppe americane e anche Beran può tornare in patria, a Praga, dove è nominato professore ordinario di Teologia pastorale nella Facoltà Teologica dell’Università Carolina. Un anno dopo, Pio XII lo sceglie come nuovo arcivescovo di Praga e come primate della Chiesa cattolica cecoslovacca. La consacrazione avviene nella Cattedrale di Praga l’8 dicembre del 1946.
Quella di Beran è una nomina accolta positivamente dal clero e dai fedeli per l’alto credito che ha non solo nella Chiesa ma anche nella società civile, tanto da essere insignito della Croce di guerra dal presidente della Repubblica Cecoslovacca. Solo alcuni sacerdoti si oppongono, rimproverandogli il suo fraternizzare con i comunisti conosciuti nel campo di concentramento e i suoi rapporti con i ministri delle altre confessioni. Un’accusa dai caratteri tragicomici, considerando le tribolazioni che Beran avrebbe subito dal regime comunista negli anni a venire.

La lunga segregazione

Una volta che il comunismo prese il potere in Cecoslovacchia nel 1948, la politica del governo andò repentinamente verso drastiche riduzioni delle libertà dei cittadini e della democrazia. Gli elementi dissidenti furono eliminati in tutti i settori della società, e anche la Chiesa fu colpita: requisite le sue proprietà e le scuole dei religiosi, chiusi i giornali cattolici, sciolta l’Azione cattolica, cancellata la presenza dei sacerdoti negli ospedali e in tutti i settori della vita sociale, annullata la libertà di religione. Beran e l’episcopato tentarono di aprire delle trattative con lo Stato per garantire alla Chiesa il mero mantenimento delle condizioni essenziali per la sua sopravvivenza basate sul precedente modus vivendi. Ma non s’arrivò ad alcun accordo. Beran protestò pubblicamente per le misure incostituzionali che il governo aveva preso: la sua lettera episcopale Non tacere, arcivescovo! Non puoi tacere!, contro la deriva totalitaria, pubblicata come editoriale in due quotidiani il 25 febbraio del 1948, divenne famosa, ma fu scavalcata dagli eventi: Beran, da tempo considerato un elemento pericoloso dal regime, venne arrestato il 16 giugno del 1949. Tenuto prigioniero nel suo palazzo, eluse la sorveglianza e raggiunse la chiesa di Sarakov. Qui, di fronte a una folla di fedeli commossi cercò di spiegare la situazione: «Può darsi che da qui a poco alla radio sentirete dire di me ogni sorta di calunnie. Forse vi diranno che ho confessato delitti innominabili. Spero che avrete fiducia in me. Io dichiaro qui solennemente, davanti a Dio e alla nazione, che mai concluderò un accordo che intacchi i diritti della Chiesa». Dopo poco la polizia irruppe nella chiesa arrestando Beran e l’abate di Sarakov che l’aveva lasciato parlare. Per due anni Beran fu trattenuto agli arresti domiciliari, poi venne trasferito nel castello di Rozelov e in altre residenze fuori dalla diocesi di Praga. Fu privato di tutte le sue libertà personali e dei suoi diritti di vescovo. Ai cattolici venne ordinato di dimenticarlo mentre a lui fu negato ogni contatto con l’esterno. Tanto che una lettera di Giovanni XXIII inviata a Beran nel maggio del 1961, in occasione del cinquantesimo anno della sua ordinazione sacerdotale, venne rispedita al mittente con la dicitura: «Senza recapito». La lettera di Giovanni XXIII fu comunque pubblicata dall’Osservatore Romano. Scrive il Papa: «Ti deve sostenere la consapevolezza di aver agito bene. Non la colpa, ma solo la virtù ti ha prostrato; né sterile e senza frutto sarà l’inoperoso silenzio a cui ti hanno costretto, l’ingiustizia che soffri, la pena immeritata che ti è inflitta. Il grano di frumento che si disfà sotterra, produrrà la spiga e darà un’aurea messe». Nonostante la lunga prigionia il regime cecoslovacco non intentò nessun processo contro Beran: era un eroe della resistenza antinazista e il suo nome era celebre in patria e all’estero. Inoltre, forse giovò anche il fatto che Antonín Novotny, presidente della Cecoslovacchia nel periodo 1957-1968, era stato anch’egli internato come Beran nei campi di concentramento nazisti.
Il 4 ottobre del 1963, dopo una lunga trattativa con il Vaticano, il governo concede una cosiddetta grazia a Beran e il duro regime d’internamento si attenua un po’, ma lui non può riprendere il suo ufficio. Nel 1965 gli viene accordato il permesso di partecipare al Concilio Vaticano II ma a condizione di non rientrare mai più nel suo Paese. Beran tenta di resistere ma alla fine è costretto a cedere e per il bene della Chiesa cecoslovacca accetta l’esilio a Roma. Il regime, mantenendo il più completo segreto sulla sua partenza, consente soltanto ai suoi parenti più stretti di salutarlo brevemente.

L’esilio a Roma

Paolo VI lo crea cardinale nel concistoro del 22 febbraio del 1965, e Beran partecipa all’ultima sessione del Concilio Vaticano II dove tiene un intervento sulla libertà di coscienza. L’arrivo a Roma di Beran fu evidenziato da tutti i mass media del mondo che non facevano parte del blocco comunista, ma lui non si rese disponibile a diventare un simbolo dell’anticomunismo, anzi, a causa della sua riservatezza i mezzi di informazione lo definirono «il cardinale dalla bocca chiusa».
Intraprende però una serie di viaggi tra i connazionali in Europa e oltreoceano, invitando alla concordia e al perdono delle ingiustizie. Parla dalla Radio Vaticana ai fedeli che si trovano oltre la cortina di ferro e promuove la pubblicazione di libri e riviste per i cattolici cechi. Il regime non smette però di tenerlo sotto controllo neanche a Roma, visto che, come emerge dalle ricerche di padre Robert Graham, nel 1965 viene ordinato sacerdote nel Pontificio Collegio Boemo Frantisek Kuncik, che in realtà è un agente della Stb – i servizi segreti cecoslovacchi – con il compito di controllare Josef Beran.
I suoi interventi pubblici restano una rarità, come testimonia un articolo della Nazione del 30 agosto 1965, ripescato dal senatore Andreotti nel suo archivio personale, nel quale viene sintetizzata una conferenza stampa tenuta da Beran ad Assisi, in cui il primate di Cecoslovacchia parla della sua vita e della situazione della Chiesa nel suo Paese: «Sono stato cinque anni nel lager nazista di Dachau, ho subito nella carne e nello spirito le più selvagge punizioni, sofferto la tortura e la fame, le percosse e la segregazione. Ma forse più sottile e mortificante per me cattolico è stata la persecuzione comunista, anche se non ha avuto i drammatici aspetti di quella tedesca: una condanna alla mortificazione dell’anima, l’isolamento, la menzogna, il tradimento, la delazione, la cappa di intransigenza gettata sopra ogni slancio umano, il carcere, la clandestinità di ogni iniziativa religiosa, la progressiva paralisi dell’attività della Chiesa».
Nelle parole del cardinale colpisce anche come la vita della Chiesa dipenda dai cambiamenti del potere mondano, seppure lontani. L’azione di repressione del regime cecoslovacco, tra i più isolati e meno dialoganti del blocco comunista, si attenuava spesso in seguito a cambiamenti che avvenivano fuori dai propri confini. Spiega Beran: «Molta impressione ha suscitato a suo tempo la richiesta di grano fatta dalla Russia agli Stati Uniti. I comunisti non credevano alle loro orecchie. L’iniziativa sovietica servì a far comprendere quanto meschino fosse l’isolamento del Paese. Tuttavia la sostanza è rimasta».

«Abbiamo tutti un gran bisogno di preghiera»

Racconta ancora Beran nella sua conferenza stampa ad Assisi riportata dalla Nazione: «Abbiamo tutti un gran bisogno di preghiera: quando ero nella prigione di Praga, un giorno fu messo nella mia stessa cella un sottufficiale. Era condannato a morte e doveva essere giustiziato quel giorno. Mi sono avvicinato e gli ho detto: “Vorrei aiutarti a morire bene”. “Ma io non sono cattolico”, mi disse lui. Feci tutto il possibile per prepararlo a una buona morte e alla fine, egli, pieno di consolazione mi disse: “Adesso non ho più paura. Se mi sarà possibile griderò nel mio ultimo momento: Viva la patria”. La sera, verso le sette, abbiamo udito i colpi dei fucili. Tutti abbiamo pregato per la sua anima benché io solo fossi un sacerdote». Durante la conferenza tutti notano che Beran tiene in mano «un libro di preghiere coperto di marocchino rosso»: il cardinale boemo non se ne separava mai perché era il breviario che Giovanni XXIII gli aveva fatto recapitare l’8 dicembre 1962, giorno dell’Immacolata: «Mi fu consegnato attraverso le autorità del Ministero degli Interni dopo molti giorni. “Puoi leggerlo”, mi disse un funzionario». Ma quel giorno l’arcivescovo di Praga Beran capì anche, dal colore rosso della copertina del breviario, che papa Roncalli l’aveva fatto cardinale in pectore. L’articolo della Nazione si conclude con queste parole che spiegano com’era fatto Beran: «L’anziano presule si è alzato, ha preso sopra un tavolo il vassoio dei pasticcini e ha servito lui stesso, con molta umiltà sorridendo, il modesto rinfresco preparato per i giornalisti. Poi è disceso nel teatro della Cittadella accolto da un applauso che pareva non dovesse finire più».
Ma per Beran, che era arrivato a Roma con una logora veste talare e con gli scarponi da montanaro, e che affrontava la pena struggente dell’esilio con serenità, sopravvenne come ultimo e inaspettato avversario il tumore che distrusse la sua esistenza. Nonostante questo, finché gli fu possibile, tutte le mattine si fece portare nella cappella del Collegio Nepomuceno, dove risiedeva, per celebrare la messa e passare lunghe ore in preghiera. Morì il 17 maggio del 1969 e Paolo VI, informato dell’aggravarsi delle sue condizioni, accorse al capezzale. Ha spiegato il cardinale Sodano nel suo intervento all’Università della Santa Croce: «Durante il suo funerale nella Basilica Vaticana, Paolo VI parlò di lui come di una grande figura di martire per la fede, come di un benemerito Pastore per la libertà della sua patria». Ma la devozione di Paolo VI per Beran è ben descritta anche da don Paolo Liggeri, che conclude così il suo articolo sull’Osservatore dedicato al servo di Dio Josef Beran: «L’avevo rivisto per l’ultima volta durante una speciale udienza in Vaticano, mentre Paolo VI, visibilmente commosso, parlava a una moltitudine di sacerdoti di diverse nazionalità, reduci dai campi di concentramento nazisti. A fianco del Papa c’era lui con il suo volto sereno e sorridente, ma come imbarazzato a presentarsi a tanti suoi compagni di sofferenza ammantato di porpora cardinalizia. […] Ma non lo avvicinai, perché alla fine Beran era rimasto come assediato da tanti sacerdoti che lo avevano conosciuto e ammirato quando era vestito di stracci a Dachau. Mi accontentai di contemplarlo, come in una specie di trasfigurazione; e con dolcissima contemplazione pensai che in questo strano – e a volte orribile – mondo fioriscono ancora i santi».


Autore:
Roberto Rotondo


Fonte:
www.30giorni.it

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Aggiunto/modificato il 2012-06-30

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