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Gabrio Piola Laico

Testimoni

Milano, 1794 – Giussano, Monza e Brianza, 1850


«Posso sperare che ella non vada in collera se aggiungo un’altra cosa? Non le ho ancora detto
tutto, ed aspettavo a dirlo un po’ alla volta e giacché adesso mi si offre l’occasione, dico anche questo. Le pare che sia una bella cosa che dei giovani piglino i loro appuntamenti di passeggio e di spasso all’oratorio come potrebbe farsi in un caffè e vanno e vengono in tempo delle sacre funzioni? Le pare che stia bene che i giovani prendano in giro i più grandi? Lo so, in tutto questo non c’è niente di grave; e anch’io, quando alla loro età ero studente a Pavia, facevo forse di più coi professori. Ma vi era un brav’uomo che mi ammoniva e a quelle ammonizioni io non mi offendevo. Adesso tocca a me dar qualche avviso ai giovani».
Così scriveva ad un educatore dell’Oratorio di San Vittore in Milano Gabrio Piola, cui oggi è dedicata una fermata della Linea Verde della Metropolitana Milanese. Scienziato famoso, rifiutò la cattedra di matematica e fisica presso l’Università di Pavia, preferendo rimanere a Milano anche - certo non solo - perché non volle abbandonare l’incarico che gli era caro, quello di Prefetto dell’Oratorio. Come ci testimonia la lettera, egli vi metteva lo stesso impegno che
profondeva nella formazione dei suoi discepoli, tra cui Francesco Brioschi, il fondatore del Politecnico di Milano. Anche ai suoi studenti scriveva lettere dense: «Che tu ritrovi nelle
matematiche riposo e gioia della mente, io lo credo ben volentieri, e lo so bene, e così deve essere, perché, essendo il loro fondamento la verità, il loro progresso è nella verità, il loro oggetto è sempre la verità, e pertanto non possono fare a meno di consolare uno spirito pensante e attivo, che per natura è continuamente alla ricerca del vero. Non avrai allora
discaro quanto sto per aggiungere, conoscendo bene il tuo animo. Abbiamo un tesoro ben
più prezioso d’ogni umana sapienza, un tesoro che non si perde per malattie o per morte, ma
che può esserci disgraziatamente rapito, se non vegliamo attenti, intendo la Fede. Sono ben lontano dal credere - come si fa ai giorni nostri - che lo studio delle matematiche possa nuocere alla Fede; mi parrebbe di fare un gran torto ad una scienza figlia della ragione, se la credessi in guerra contro Colui che vibrò nell’umana mente quel lampo del Suo volto divino; e farei un gran torto anche alla Fede, che non teme mai l’esame di un retto filosofo, in cui tacciono le passioni». Erano così - e solo per cenni - i laici credenti dell’Ottocento, contenti di credere, e di darne concreta testimonianza.


Autore:
Ennio Apeciti


Fonte:
Milano Sette, 18 novembre 2012

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Aggiunto/modificato il 2012-12-10

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