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Beato Lazzaro Shantoja Sacerdote e martire

5 marzo

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Scutari, Albania, 2 settembre 1892 – Tirana, Albania, 5 marzo 1945

Lazër Shantoja, sacerdote della diocesi di Scutari, s’impegnò nel ministero sacerdotale prima in un paese di montagna, poi come segretario dell’arcivescovo di Scutari. Dotato di un animo sensibile, lo espresse nello studio del pianoforte, nella traduzione di poeti stranieri e in sue composizioni personali. Esule in Svizzera negli anni del governo di re Zog I, sentì una forte nostalgia del suo Paese, dove tornò dopo oltre quindici anni. Inviso al nuovo regime comunista, venne torturato e infine, il 5 marzo 1945, ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Inserito nel gruppo dei 38 martiri uccisi in Albania durante il regime comunista, è stato beatificato a Scutari il 5 novembre 2016.



Formazione sacerdotale e letteraria
Lazër Shantoja nacque a Scutari in Albania il 2 settembre 1892. Stimolato dall’esempio di un suo zio, comprese di dover diventare sacerdote: studiò quindi nel Seminario della sua città, retto dai padri Gesuiti. Proseguì la formazione a Innsbruck, in Austria, dove imparò il tedesco.
Vivace e curioso, seguì da vicino i tentativi del popolo albanese di liberarsi dal dominio dell’impero ottomano. Allo stesso tempo, continuò a studiare pianoforte e si cimentò nelle sue prime composizioni letterarie.

Il parroco col pianoforte
Una volta ordinato sacerdote, nel 1920, rientrò in Albania e fu subito nominato parroco di Sheldija, un paese di montagna a est di Scutari. Una volta stabilito lì, si fece portare il suo pianoforte caricato sul dorso di un asino: fu così che venne soprannominato “il parroco col piano”.
Iniziò subito il suo ministero, facendosi apprezzare dai suoi parrocchiani per le sue naturali capacità di guida, non solo spirituale.

Segretario dell’arcivescovo di Scutari
Nel 1924, mentre l’Albania indipendente era in lotta coi popoli vicini, il nuovo arcivescovo di Scutari, monsignor Lazër Mjeda, chiese a don Lazër di diventare suo segretario. Lui obbedì, ma i parrocchiani montanari non erano affatto d’accordo: accettarono solo quando compresero che non c’era molto da discutere con l’autorità del vescovo. Così, con aria amareggiata, accompagnarono il loro ex parroco nella nuova destinazione, insieme all’immancabile asino che trasportava il pianoforte, i libri e gli spartiti.
La sera, nel tempo libero dagli impegni, don Lazër si dedicava al suo amato strumento, tanto che in breve, sotto le finestre del palazzo arcivescovile, si radunavano molti passanti per quei concerti improvvisati.

Un acuto polemista
Il suo incarico principale, oltre all’assistenza al vescovo, fu quello d’incentivare le iniziative perché l’Albania potesse essere considerata al pari delle altre nazioni europee. In tal senso accettò di partecipare attivamente alla redazione del quotidiano «Ora e maleve» (La Difesa delle Montagne), organo ufficiale della Democrazia Cristiana albanese, che si diffuse ben oltre il partito, l’ambito cattolico e quello nazionale.
I suoi articoli, scritti con uno stile arguto e polemico, gli valsero il rispetto anche dagli avversari politici, proprio per il modo con cui trattava i vari argomenti.

Lontano dalla patria
Tuttavia, quando il capo militare Ahmet Zogu si autoproclamò re col nome di Zog I e instaurò una politica repressiva, molti intellettuali e partigiani lasciarono l’Albania. Tra di essi, don Lazër, che riparò in Jugoslavia, poi passò a Vienna e, infine, si stabilì in Svizzera. Inizialmente risiedette a Berna, ma dal 1935 al 1939 esercitò il ministero a La Motte, sulle Alpi bernesi.
Continuò anche la sua attività culturale: tradusse Goethe, Schiller e alcuni poeti italiani. Produsse anche saggi brevi, articoli e poesie. Allo stesso tempo, mirava a costruire un’opera centrata sui valori tradizionali del focolare, concretizzati nelle fiamme che simboleggiavano la libertà basata sulla fede in Dio.
Viveva in ardente nostalgia per la sua patria, così da confidare al poeta Ernest Koliqi, che era andato a trovarlo: «Ho bisogno di mangiare formaggio di capra su pane doppio, e che questo formaggio conservi il sapore del fogliame dei nostri faggeti, in cui si nutrono le capre». Fuor di metafora, sentiva la necessità di restare in contatto con le proprie origini, aiutato in questo dalla madre, che l’aveva accompagnato e che parlava solo albanese.

Il rientro e la persecuzione
Nel 1938 fu in grado di tornare in Albania e scelse di stabilirsi a Tirana, insieme alla madre, in una piccola casa, per dedicarsi solo alla letteratura. In seguito alla sua morte si scoprì che aveva dedicato alcuni sonetti, volutamente anonimi, a una donna. Il fatto scandalizzò molti, ma era allo stesso tempo indicativo del suo animo sensibile alla bellezza, anche di quella degli esseri umani.
Tuttavia, la prese di potere da parte dei comunisti lo rese subito sgradito: negli anni della seconda guerra mondiale, infatti, si era avvicinato agli italiani fascisti, ma ne aveva subito preso le distanze.

Il martirio e la beatificazione
Venne subito torturato, tanto che gli furono spezzati gambe e braccia: poteva trascinarsi alla sua cella puntando sulle ginocchia e sui gomiti. Sua madre, un giorno, andò a trovarlo, ma non resistette a quella vista: «Compro io il proiettile per ucciderlo», supplicò i soldati, «ma non lasciatelo più in queste terribili condizioni!». I persecutori, invece, aspettarono ancora qualche tempo, poi una soldatessa lo finì con una pallottola alla nuca.
Compreso nell’elenco dei 38 martiri albanesi capeggiati da monsignor Vinçenc Prennushi, don Lazër Shantoja è stato beatificato a Scutari il 5 novembre 2016.


Autore:
Emilia Flocchini

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Aggiunto/modificato il 2016-10-26

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