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Mons. Alexandre Taché Vescovo

Testimoni

Rivière-du-Loup, Canada, 23 luglio 1823 - Saint Boniface, Canada, 22 giugno 1894


Il 25 agosto 1845, un giovane missionario, che non è ancora prete, e neppure diacono, si presentava a mons. Provencher, vescovo dei territori del Grande Nord, in Canada: «Suddiacono! Ma è di preti che ho bisogno! esclama il prelato... Mi mandano dei bambini, mi ci vogliono degli uomini!» Al “bambino” a cui rivolgeva questa accoglienza poco cordiale, mons. Provencher affiderà ben presto la sua immensa diocesi. Sarà l’inizio dell’evangelizzazione del Nord canadese da parte degli Oblati di Maria Immacolata (OMI), nota con il nome di Epopea bianca.
Alexandre Antonin Taché è il terzo figlio di Charles Taché e di Louise de la Broquerie. Per parte di padre, discende dalla stirpe di Louis Joliette (1645-1700), l’esploratore del Missisippi; per parte di madre, è imparentato con la venerabile Marguerite d’Youville, fondatrice delle Suore Grigie, che furono la provvidenza degli orfani del Nord. Alessandro nasce il 23 luglio 1823 a Fraserville nel Québec e riceve il Battesimo il giorno stesso. Il signor Taché muore nel 1826, lasciando la moglie vedova a vent’otto anni. Quest’ultima non si risposa; alleva i suoi figli a Boucherville, presso i suoi genitori, con l’aiuto di un fratello celibe. Nel 1832, la famiglia si stabilisce nel maniero di Sabrevois. La signora Taché coltiva la sua grande cultura con lo studio regolare. Nello sfondo di una vita pacifica e pia, inizia i propri figli alla botanica, all’astronomia, alla storia e alla filosofia.

L’influenza di uno sguardo
«Nel settembre 1833, Alessandro entra come allievo interno nel collegio Saint-Hyacinthe, uno dei seminari minori dove alcuni giovani del Québec ricevono la loro educazione. Allievo brillante, Alessandro è anche un compagno pieno di brio. Termina i suoi studi di filosofia a diciott’anni prima «di prendere il Signore come sua parte di eredità e suo calice» (cfr. Sal 15, 5), presso il seminario maggiore di Montréal. Il vescovo di questa città, mons Bourget, è appena tornato dalla vecchia Francia in compagnia di sei missionari Oblati di Maria Immacolata, che ha ottenuti dal fondatore della congregazione, mons. Eugenio de Mazenod, vescovo di Marsiglia, come collaboratori. Lo sguardo del giovane seminarista si fissa sui missionari: «Vi sono sguardi che lasciano un segno netto e hanno un’influenza su un’intera esistenza, dirà; quelli che ho soffermati sui padri Honorat e Telmon hanno contribuito non poco all’orientamento della mia vita.» Vi scopre, in effetti, un appello a diventare egli stesso oblato. Nel 1844, mentre insegna matematica a Saint-Hyacinthe, studiando nello stesso tempo teologia, si confida con la madre riguardo al suo progetto. Quest’ultima acconsente con fede; ma, dopo l’ingresso di suo figlio nel noviziato di Longueuil, si ammala gravemente. Per ottenere la guarigione della madre, il novizio fa voto di servire nelle missioni del Grande Nord Ovest, le più difficili. La malattia cede d’improvviso e la paziente si salva.
I territori del Grande Nord Ovest canadese o della Rivière-Rouge, ancora denominati “terra di Rupert”, occupano nove volte la superficie della Franca. La popolazione bianca non supera allora le quattromila anime. Gli “Inglesi” e i “Francesi”, così chiamati a seconda della lingua che utilizzano, provengono da paesi assai diversi; servono l’“Onorevole Compagnia della Baia di Hudson”, società per il commercio delle pellicce che realizza enormi profitti ed esercita l’autorità a nome dell’Inghilterra. La popolazione autoctona conta quindicimila meticci, chiamati “coureurs des bois” (commercianti clandestini di pellicce); forti e instancabili, sanno andare perfettamente a cavallo e sono particolarmente abili nella caccia. I loro padri hanno profetizzato la venuta di uomini non sposati in abito nero che li avrebbero condotti a Dio; accolgono quindi favorevolmente i missionari, di cui si fanno le guide indispensabili. Cinquantamila indigeni, chiamati Indiani, formano cinque gruppi: Algonchini, Assiniboin (Sioux), Piedi Neri, Montagnais ed Eschimesi. Vivono di caccia e pesca, barattando le pelli ai Forti per il traffico delle pellicce (centri istituiti dalla Compagnia di Hudson) in cambio di merci occidentali. Gli Indiani delle pianure seguono i bisonti; l’abbondanza delle mandrie, che procurano il nutrimento con poca spesa, la promiscuità e l’assenza di un lavoro costante sono le cause di un estremo degrado morale. Gli Indiani delle foreste sono quasi sempre isolati e costantemente occupati a sopravvivere; accolgono volentieri il cristianesimo.
L’evangelizzazione della terra di Rupert era iniziata fin dal 1818, su richiesta di uno scozzese protestante, lord Selkirk. Persuaso che solo la Chiesa cattolica potesse assicurare la perennità della colonia franco-inglese, egli fece appello a mons. Provencher aiutato da alcuni preti. La cattedrale di San Bonifacio, modesta chiesa in pietra, impressionava gli abitanti. Il rustico palazzo vescovile consentiva di alloggiare anche delle suore e di esercitare un’ospitalità decente. Nel 1844, mons. Provencher si reca a Marsiglia per implorare l’aiuto di mons. de Mazenod. Incapace di rifiutare quando si tratta di evangelizzare i poveri, quest’ultimo concede padre Aubert e fratel Taché, che si è proposto per questa missione.

Pregare sull’acqua

Da Trois-Rivières (Québec) a San Bonifacio (oggi periferia di Winnipeg) si estendono più di duemila chilometri da attraversare in canotto di corteccia. Ci vogliono sessantadue giorni per percorrere questa distanza. I missionari celebrano la Messa la domenica, ma negli altri giorni si prega sull’acqua; il viaggio lascia spesso il tempo per meditare sulle grandezze della natura. L’equipaggio fa scalo in ogni Forte di commercio, dove i missionari ricevono sempre una calorosa ospitalità dai commessi dell’Onorevole Compagnia. Quando, nel 1845, fratel Taché si presenta a mons. Provencher, il prelato lo ordina quasi subito diacono, poi prete. Il nuovo Padre pronuncia i suoi voti di Oblato subito prima della sua prima Messa. L’inverno successivo trascorre presso il vescovado in compagnia dei padri Laflèche e Belecourt che insegnano ai giovani missionari il “sauteux” (lingua dei Sauteux algonchini) in modo intensivo. Gli Indiani sono grandi oratori, ed è necessario per i missionari acquisire una perfetta conoscenza delle loro lingue per avere una vera e profonda influenza. Nell’anno successivo, i padri Taché e Laflèche vengono inviati 1600 km più a nord, a Île-à-la Crosse, con la missione di spingersi il più lontano possibile verso le tribù che si aprono alla luce della fede. La missione è dedicata a san Giovanni Battista. I preti alloggiano al Forte di commercio, dove un Indiano cieco insegna loro due lingue: il cree e il montagnais. «Il cree non è una lingua difficile, osserva padre Taché; ma il montagnais supera, per la pronuncia, tutto ciò che avevo immaginato di difficoltà.» Ben presto, padre Laflèche, meno idoneo alla marcia, prepara un giardino e una capanna che servirà come abitazione per i missionari. Ma questo rude lavoro gli provoca un’infermità che lo lascerà zoppo, nonostante le cure assidue di padre Taché.
I missionari annunciano Cristo, che promette il Cielo ai convertiti, e mettono questi ultimi in guardia contro i peccati che conducono all’inferno. Espongono loro le esigenze della moralità cristiana, in particolare riguardo al matrimonio, poiché la poligamia, frequente tra gli Indiani, impedisce di ricevere il Battesimo. La sacra liturgia viene celebrata con tutto lo splendore possibile e tutti sono invitati a parteciparvi. Non appena vengono erette le prime chiese di assi nei posti fissi, gli Indiani cristiani o pagani vi si recano con riverenza e gioia, terrorizzati dal suono delle prime campane, meravigliati dei canti religiosi. I missionari insegnano la lettura ai neofiti più dotati, che a loro volta trasmettono le loro conoscenze. In seguito, i Padri stamperanno delle preghiere e un catechismo. Grazie ai loro orfanotrofi e alle loro scuole, le Suore Grigie, che hanno raggiunto i Padri nel 1844, formano dei bambini; questi avranno molta influenza sul resto della popolazione. I progressi materiali e culturali danno al cristianesimo un motivo solido di credibilità, che aiuta gli Indiani a seguire gli insegnamenti dei missionari.
In occasione del suo incontro con il mondo della cultura, presso il Collège des Bernardins di Parigi, il 12 settembre 2008, papa Benedetto XVI ha messo in risalto la ragione profonda della missione: «I cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.»

Privi di tutto e felici
Nel 1848, arriva alla missione il giovane padre Faraud, Oblato. La vita religiosa vi è fervente e l’umore gioviale: storie, canzoni e risate accompagnano il lavoro manuale dei missionari. “Viva il Nord e i suoi felici abitanti! Siamo poveri e privi di tutto, ma la felicità e la soddisfazione che, spesso, non abitano nei palazzi dei grandi, regnano nella nostra capanna!», scrive padre Taché. Ben presto, però, la rivoluzione del 1848 in Francia minaccia di prosciugare i sussidi provenienti dal paese e, nella loro posta biennale, i superiori lasciano intendere ai missionari del Grande Nord che prevedono il loro richiamo. Preoccupati della salvezza eterna di coloro che evangelizzano, i Padri rispondono: «Procurateci del vino e delle ostie, gli animali selvatici saranno sufficienti per i nostri vestiti e i pesci per il nostro sostentamento, ma, di grazia, non richiamateci!»
L’anno seguente, padre Laflèche viene chiamato a San Bonifacio. Interpellato da mons. Provencher per diventare suo coadiutore, fa notare la propria infermità che lo rende inadatto a questo incarico. «È vero che ho padre Taché, pensa il vecchio prelato, ma è praticamente appena nato. Tuttavia, è un uomo di grande talento, che conosce il paese, le missioni e le lingue. Inoltre, è Oblato, e solo gli Oblati accettano di dedicarsi per tutta la loro vita a queste missioni difficili; non è forse giusto prendere il loro capo tra questi religiosi? Questo Padre ha non ha ancora ventisette anni, ma è un difetto da cui la Santa Sede dispensa e dai cui l’eletto si correggerà fin troppo rapidamente.» Ben presto, il cambiamento del coadiutore viene richiesto a Roma, mentre ne è informato mons. de Mazenod. Quest’ultimo riceverà la lettera solo dopo aver appreso la nomina ufficiale da parte di Roma, proprio quando ha appena deciso il ritiro degli Oblati dalle missioni del Nord Ovest. Immediatamente, l’umile prelato sospende la propria decisione e convoca padre Taché. Dopo un lungo viaggio al termine del quale quest’ultimo si ferma appena per far visita alla madre, il missionario si trova per la prima volta di fronte al Padre della sua famiglia religiosa, che lo interpella: «Tu sarai vescovo. – Monsignore, voglio restare Oblato. – Come? La pienezza del sacerdozio escluderebbe forse la perfezione a cui deve tendere un religioso?» Raddrizzandosi, mons. de Mazenod aggiunge: «Nessuno è più vescovo di me, e nello stesso tempo nessuno è più Oblato! Forse che non conosco lo spirito che ho voluto ispirare alla mia congregazione? Sarai vescovo, lo voglio; ti nomino anche superiore regolare dei nostri che sono alla Rivière-Rouge.» Di fronte alle lacrime dell’eletto, il vescovo aggiunge: «Consolati, figlio mio, la tua elezione è stata fatta a mia insaputa, ma salva le missioni nelle quali avete già tanto lavorato. Alcune lettere mi avevano presentato queste missioni sotto una luce così sfavorevole che ero deciso a richiamarvi tutti, quando ho appreso la tua nomina all’episcopato. Voglio che, come me, tu obbedisca al Papa. Mi darò la consolazione di consacrarti io stesso.» La consacrazione si svolge, il 23 novembre 1851, a Viviers. Dopo un pellegrinaggio a Roma, dove tornerà quattro volte nella sua vita, e un giro di conferenze a favore delle missioni, mons. Taché riparte per il Canada.

Meno quaranta
Durante cinque inverni consecutivi, il nuovo vescovo si lancia in racchette da neve sui 700 km che collegano le missioni del lago Caribou con il lago Sant’Anna; prosegue persino fino al lago Athabasca. In uno solo di questi viaggi, l’apostolo conta sessantatré notti all’addiaccio con una temperatura di meno quaranta gradi. A Île-à-la-Crosse, scopre che, durante la sua assenza, alcuni dei suoi Indiani sono stati distolti dalla vera fede. Li incontra gli uni dopo gli altri, rivolge loro rimproveri, consigli, preghiere, e rinsalda per sempre il loro legame con la fede. Insegna ai suoi missionari a non aspettarsi dagli Indiani la raffinatezza dei modi, perché, prima di averli civilizzati, bisogna piuttosto accettare di riceverne qualche villania. Nei vari luoghi di missione, il vescovo e i suoi compagni trascorrono il loro tempo nella preghiera, nello studio, nel ministero presso gli Indiani e nel lavoro manuale, soprattutto nell’agricoltura, che ottiene un rendimento apprezzabile. Alcune invasioni di cavallette devastano a volte i raccolti e degli incendi riducono in cenere anni di lavoro. Mons. Taché si fa allora mendicante: va alla ricerca dei mezzi per sopravvivere e per ricostruire nelle diocesi del Canada orientale e persino sul vecchio continente. Si dedica egli stesso ai più umili lavori, ma la cura delle anime ha sempre la sua preferenza, e prodiga il suo tempo a ogni Indiano che desideri parlargli.
Il problema dei trasporti è vitale per le missioni. Mons. Taché supervisiona il carico e la distribuzione dei prodotti, che etichetta di sua mano: sa che qualsiasi ritardo o perdita si traduce in ulteriori sofferenze per i suoi missionari. Fino ad allora dipendente dall’Onorevole Compagnia della Baia di Hudson, che aveva finito con l’abusare del suo monopolio, il vescovo s’ingegna ad aprire nuove strade e a instaurare un sistema di comunicazioni indipendente. Nel 1858, entra in servizio il primo battello a vapore nel Nord, e la ferrovia agevolerà gradualmente i viaggi.

Che lavoro!
Nel 1865, quando contemplerà la missione della diocesi di Saint Albert, il vescovo, pieno di fierezza, esclamerà: «Eppure non sono ancora passati quattro anni da quando è stata fatta la scelta di questo posto, e che lavoro già! Sono sorti dei begli edifici; campi vasti e ben coltivati producono già abbondanti raccolti. Le abitazioni che circondano la casa del Signore formano il gruppo che domina l’intero paesaggio: il piccolo fiume che si attraversa su un bel ponte; il lago ai piedi della montagna che fornisce il legname da costruzione; non sappiamo che cosa ammirare di più, la bellezza del paese o il lavoro colossale dei suoi apostoli... Eppure, i sognatori di sistemi assurdi vogliono che i preti non siano gli uomini dell’epoca. Vengano pure, questi nemici della Rivelazione. Ci sono ancora abbastanza tenebre perché ciascuno possa provare il suo sistema; rendano pure agli Indiani ignoranti più servizi di quelli che rende loro il povero prete; che civilizzino di più e più in fretta: allora crederemo nella loro missione riformatrice. Ma, mentre godono dei benefici che il cristianesimo ha seminato nel mondo, non bestemmino contro Dio, né contro la sua santa legge, né contro i suoi sacri ministri!»
Nella sua enciclica Redemptoris missio, san Giovanni Paolo II sottolineava l’aspetto civilizzatore delle missioni della Chiesa: «Con la loro presenza amorosa e il loro umile servizio, i missionari operano per lo sviluppo integrale della persona e della società mediante scuole, centri sanitari… Queste opere testimoniano l’anima di tutta l’attività missionaria: l’amore,... il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere.» (7 dicembre 1990, n° 60).
Negli anni 1860, lo sviluppo delle missioni del Nord richiede una nuova organizzazione. Mons. Taché la intraprende a partire da San Bonifacio: ottiene da Roma la fondazione di nuovi episcopati. Egli stesso viene nominato arcivescovo nel 1871, quando già la sua salute sta seriamente peggiorando. Cerca di coltivare l’unità di spirito e di cuore con i nuovi vescovi. Le responsabilità che essi assumono e i gravi problemi che affrontano li mettono a volte in contrasto gli uni con gli altri. Egli scrive a uno di loro: «Avremmo bisogno di essere più uniti, e ci si divide sempre più ogni giorno. Se ne avete l’opportunità, credo che rendereste un servizio immenso alla Chiesa operando per riunire questi venerabili Signori.» L’unità tra i vescovi missionari è una necessità vitale per l’evangelizzazione, ma anche per tutte le comunità cristiane; essa risponde alla preghiera di Gesù: Padre, che tutti siano una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (Gv 17, 21).

Una missione delicata
Nel 1870, mons. Taché partecipa al primo Concilio Vaticano. Poco dopo, il governo canadese gli affida una delicata missione diplomatica. Le terre della Rivière-Rouge sono state appena cedute dalla Compagnia di Hudson alla Confederazione canadese per diventare la provincia del Manitoba. Nonostante le istanze di mons. Taché, che aveva previsto i problemi che si sarebbero presentati se si fosse trascurato di preparare le popolazioni, l’operazione è stata effettuata senza che siano state consultate. In effetti, quando gli inviati del governo federale vengono a prendere possesso del paese, si scontrano con il governo provvisorio costituito dai meticci. Desideroso di evitare la guerra civile, il governo chiede a mons. Taché di intervenire. A prezzo di una promessa di amnistia generale, questi dapprima ottiene un successo. Tuttavia, la pressione politica di alcuni inglesi dell’Ontario portano il governo federale a rinnegare le sue promesse verbali, screditando così mons. Taché e provocando un’insurrezione che verrà repressa dall’esercito.
Le scuole hanno sempre occupato un posto fondamentale nelle preoccupazioni del vescovo. In risposta ad alcuni politici che gli rimprovereranno di non aver fatto di più per l’istruzione, egli scriverà: «Non temo di affermare che qualsiasi uomo ragionevole e imparziale, esaminando ciò che facciamo, dovrà ammettere che il risultato ottenuto supera quello che le nostre risorse sembrano permetterci. Il fatto è che se non avessimo persone piene di abnegazione che si dedicano gratuitamente a questo compito tanto faticoso quanto meritorio, ci sarebbe assolutamente impossibile sostenere le nostre scuole.» Fin verso la fine degli anni 1880, il sistema scolastico garantiva un insegnamento confessionale (cattolico o protestante) nella lingua delle popolazioni interessate che finanziavano esse stesse le loro scuole. Ma la legislazione canadese si orienta allora verso un’istruzione laica, nella lingua maggioritaria, con un contributo centralizzato. Nel 1888, mons. Taché ottiene dal primo ministro la promessa di mantenere le scuole autonome e le due lingue, ma questa promessa verrà violata nel 1890 e smentita pubblicamente nel 1892. Il vescovo prende allora la difesa della libertà dei genitori cattolici, ma invano. Accoglie nelle lacrime e nella preghiera la rovina di quest’opera che gli era più cara della vita. Il 22 giugno 1894, mons. Taché termina su questa croce una vita interamente consacrata alla salvezza delle anime che tanto amava. Tuttavia, il missionario ha avuto la gioia di vedere il progresso dell’evangelizzazione; molti pagani si sono convertiti, seguendo l’esempio dei loro capi, conquistati dalla carità dei “Grandi Preganti”.
In occasione della Giornata Missionaria Mondiale 2013, papa Francesco affermava: «Dobbiamo avere sempre il coraggio e la gioia di proporre, con rispetto, l’incontro con Cristo, di farci portatori del suo Vangelo. Gesù è venuto in mezzo a noi per indicare la via della salvezza, ed ha affidato anche a noi la missione di farla conoscere a tutti, fino ai confini della terra… È importante non dimenticare mai un principio fondamentale per ogni evangelizzatore: non si può annunciare Cristo senza la Chiesa. Evangelizzare non è mai un atto isolato, individuale, privato, ma sempre ecclesiale. Paolo VI scriveva che “allorché il più sconosciuto predicatore, catechista o pastore, nel luogo più remoto, predica il Vangelo, raduna la sua piccola comunità o amministra un Sacramento, anche se si trova solo, compie un atto di Chiesa». Egli non agisce “per una missione arrogatasi, né in forza di un’ispirazione personale, ma in unione con la missione della Chiesa e in nome di essa” (Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n° 60). E questo dà forza alla missione e fa sentire ad ogni missionario ed evangelizzatore che non è mai solo, ma parte di un unico Corpo animato dallo Spirito Santo» (Messaggio del 19 maggio 2013).
L’esempio di mons. Taché è un incoraggiamento a compiere la missione particolare che il Signore affida a ciascuno di noi. Attraverso l’umile svolgimento dei nostri doveri di stato, si edifica la Chiesa per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Non stanchiamoci di fare il bene mentre ne abbiamo il tempo (cfr. Gal 6, 9‑10).


Autore:
Dom Antoine Marie osb


Fonte:
Lettera mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia - www.clairval.com

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Aggiunto/modificato il 2020-06-25

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