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Padre Jean Pierre Schumacheur Monaco trappista

Testimoni

21 novembre 2021

Questo monaco trappista era scampato alla strage di Tibhirine (Algeria) del 1996 ed ha mostrato con la sua vita come possa nascere un'amicizia tra cristiani e musulmani quando la fede è vissuta nella fedeltà quotidiana al Vangelo, senza compromessi, anche a costo della vita. L'abbraccio di cristiani e musulmani attorno alla sua tomba è stato il miracolo di un'amicizia possibile quando la ricerca sincera di Dio abita il cuore umano.



Padre Jean Pierre Schumacheur riposa, sepolto nella nuda terra come vuole la tradizione dei Trappisti, nel cimitero del monastero di Notre Dame de l’Atlas a Midelt in Marocco, accanto a sette suore Francescane Missionarie di Maria che hanno dedicato l’intera esistenza al popolo magrebino. Morto domenica 21 novembre mentre la comunità celebrava l’eucaristia e il monaco infermiere gli restava accanto, p. Jean Pierre è il primo trappista a riposare in questo cimitero; l’ha tanto desiderato lui stesso perché si trova a pochi metri dal cimitero dei fratelli dell’islam con i quali ha cercato sempre un’intesa non basata sul dialogo teologico ma sull’amicizia umana capace di superare barriere e pregiudizi.
E a curare la sua sepoltura, subito dopo la celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo di Rabat il Card. Cristobal Lopez, nella tarda mattinata del 23 novembre, sono stati loro, gli amici musulmani, che lo hanno trattato come un padre già venerandolo santo
Perché? Che cosa ha fatto di straordinario quest’umile trappista scampato alla strage del 1996 a Tibhirine in Algeria quando furono martirizzati sette monaci dichiarati beati nel 2008? Dai tanti messaggi che continuano ad arrivare da ogni parte del mondo si capisce che la vita di questo sacerdote di 97 anni, diventato trappista dopo diversi anni d’appartenenza alla congregazione dei Padri Maristi, è stata una testimonianza di pace e “profezia di futuro”. Mi sembra di poter definirne così la morte e i riti di sepoltura.
“Uomo di pace”, così scrivono e dicono di lui tutti coloro che in ogni parte del mondo ne commentano la scomparsa avvenuta nel monastero Notre Dame d’Atlas, solitario luogo di presenza cristiana in pieno territorio abitato da popolazione berbera islamizzata dalla occupazione degli arabi.
Dal mese di settembre vivo anch’io nel monastero sostituendo per la celebrazione eucaristica il Priore p. Jean Pierre Flachaire che è in Francia per cure sanitarie, e questo mi ha dato modo di respirare il clima di attenzione che i cinque monaci, più un eremita, nutrivano per l’anziano confratello, dalla salute sempre più fragile ma con una tempra da condottiero sul campo di battaglia fino all’ultimo.
Il suo apostolato era dialogare per corrispondenza: riceveva e rispondeva sempre personalmente alle migliaia di lettere di amici e conoscenti con i quali intratteneva un contatto spirituale costante. “Con queste persone – mi ha detto un giorno mostrandomi un pacco di lettere – sono da 17 anni che intrattengo una corrispondenza regolare pur non conoscendole e senza averle mai viste. La mia missione è ascoltare, pregare e consolare. Ma ora non ce la faccio più”.  
È vero, suo malgrado, alla fine ha dovuto farsene una ragione perché non riusciva nemmeno più a scrivere e allora il suo unico impegno è diventato la preghiera. In coro era al mio fianco e tante volte l’ho sorpreso nel buio della cappella in silenziosa contemplazione. Sempre più debole, s’avvertiva la fatica e la debolezza dell’età, ma dal suo volto traspariva la pace interiore che l’abitava e che riusciva a comunicare a tutti. Sì, questo era il suo carisma: vivere nella pace e trasmetterla a chiunque lo incontrava.
Martedì 16 novembre mi sono assentato per partecipare a una sessione di formazione per il clero della diocesi di Rabat, e sono rientrato sul tardi la sera di sabato 20 novembre. “I fratelli sono stati molto gentili con me”, così mi ha detto quando sono andato in cella a salutarlo e queste sono le sue ultime parole perché nella notte ha accelerato il suo viaggio verso l’incontro con Dio. Sembrava che ci stesse aspettando perché ha subito iniziato ad andarsene senza lamenti né affanno, assenti i rantoli dell’agonia. Gli è restato un tenue sorriso stampato sul suo volto, che man mano si è fatto sempre più assente, parendo già immerso in un altro mondo illuminato dal mistero della Vita. E si è spento mentre il monaco infermiere recitava il rosario, devozione mariana a lui molto cara.
La morte, come la vita, è dunque una testimonianza di pace e il funerale rappresenta una “profezia di futuro” perché appare la logica conclusione d’un percorso faticoso ma proficuo di testimonianza evangelica nel pieno contesto musulmano, in Algeria prima e dall’anno 2000 in Marocco.
Non si costruisce qualcosa di solido e di duraturo se non con l’impegno della fedeltà quotidiana al proprio ideale, anche a costo della vita.
Quando negli anni '60 del secolo scorso p. Jean Pierre entrò nel monastero di Tibhirine, in Algeria, dove poi giungerà p. Christian de Chergé e ne serà la guida, l’obiettivo era chiaro e certamente coraggioso: essere monaci fra gli algerini, testimoniare il vangelo come oranti inseriti nel popolo musulmano, popolo che prega.
Una missione non facile da capire e ancor più da portare a compimento. Accanto alla cordiale simpatia della gente del luogo non sono mancati rischi e minacce da parte di estremisti islamici. Il primo tentativo di sequestro avvenne la sera del 24 dicembre del 1993, proprio mentre si preparavano per la Veglia di Natale, tentativo scampato perché il Priore comunicò al capo del commando che quella era una notte sacra per i cristiani e i rapitori rilasciarono i monaci promettendo però di ritornare.
La comunità aveva scelto compatta di restare nonostante i rischi e le incertezze del momento. E insieme hanno vissuto il dramma del rapimento e l’uccisione, il tutto avvenuto tra la notte del 26 e 27 marzo e il 30 maggio del 1996 quando furono recuperate solo le teste dei sette monaci. Mai p. Jean Pierre ha parlato di quest’evento con sentimenti ostili all’islam, anzi ripeteva che la comunità di Tibhirine ne aveva messo in conto l’eventualità e tutti i suoi componenti non avevano mai coltivato l’ipotesi di abbandonare quel luogo perché “la loro vita era già donata per la causa dell’amicizia tra cristiani e fedeli dell’islam”.
E lui si chiedeva spesso perché fosse stato risparmiato dal martirio e concludeva dicendo che ciò era avvenuto perché potesse testimoniare lo spirito della Comunità di Tibhirine e proseguirne la missione. Costretto infatti nel 1997 a traslocare per ragioni di sicurezza, P. Jean Pierre ha raggiunto la comunità dei trappisti in Marocco dapprima a Fes per poi stabilirsi nell’anno 2000 a Midelt dove ha lasciato un segno tangibile del suo passaggio e soprattutto della sua morte, che ha permesso a tanti di scoprirlo o meglio conoscerlo.
Resterà infatti impressa nella mente di tutti i presenti come “profezia di futuro” l’abbraccio di cristiani e musulmani attorno alla sua tomba; una sola famiglia in preghiera, il miracolo dell’amicizia possibile quando la ricerca sincera di Dio abita il cuore umano. Di amicizia e di dialogo ha parlato il prof. Faouzi Skali, noto autore di testi di spiritualità sufista e uomo fortemente impegnato nel dialogo spirituale fra le due religioni, oltre ad essere amico da lunga data dei monaci e in particolare di p. Jean Pierre.
Dopo aver reso la sua testimonianza, ha chiesto ai musulmani presenti di pregare la “Fatiha” ed è stato uno spettacolo sorprendente vedere e ascoltare. Qualcuno ha detto giustamente che per qualche minuto, il tempo della preghiera, sembrava realizzarsi il sogno del defunto: fratelli che cercano Dio per vie diverse e lo invocano con stili diversi ma con uno stesso cuore.
Quale testamento spirituale lascia p. Jean Pierre? In questi anni in cui il confronto con l’islam ha suscitato l’interrogativo se sia possibile essere cristiani in un paese musulmano, il suo esempio si somma all’eredità preziosa dei martiri di Tibhirine. Il loro esempio, e soprattutto la loro testimonianza, che s’inscrive nella scia di Charles de Foucauld (sarà proclamato santo nel mese di maggio del prossimo anno) e di altri precursori di questo dialogo prova che è possibile cercare una via di incontro.
Non si tratta però di coltivare il dialogo teologico perché sarebbe impossibile conciliare le due diverse visioni di Dio e della religione. È sempre però possibile il confronto che si fa abbraccio e che aiuti a diventare amici nel rispetto reciproco, un’amicizia spirituale tra persone alla ricerca di Dio e un impegno quotidiano ad abbattere i pregiudizi per costruire una fraternità fatta di piccoli gesti di rispetto e di collaborazione. È la cifra della fratellanza che si è andata stabilendo tra i monaci e la comunità musulmana che circonda il monastero.
Ma perché il dialogo avvenga nella verità è indispensabile, come i monaci mostrano con la loro presenza, vivere nella Chiesa fedeli al vangelo senza compromessi ed essere disposti a dare la vita affinché trionfi l’Amore. E così, questi monaci diventano segni di amore e di speranza, “oranti tra gli oranti”, rendendo presente silenziosamente Gesù Cristo fra una popolazione che lo conosce ma non lo riconosce come Dio. Una presenza segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione musulmana, un modo semplice di ricercare e costruire il dialogo islamo-cristiano nel quotidiano, il dialogo della vita.
Certamente quanto ho raccontato dell’esperienza di p. Jean Pierre e del monastero di Midelt è molto lontano da quanto si vive in Italia dove a dominare è ancora molto il sospetto e il preconcetto anche a causa di episodi spiacevoli che rendono spesso difficile il dialogo con gli immigrati di religione islamica. Che dire? Non è qui il luogo per approfondire il tema, ma non posso terminare senza due personali considerazioni.
Anzitutto, va da sé, che non tutti i musulmani sono Islamisti e meno ancora jihadisti, anzi, gli integralisti a tutto tondo, nella maggior parte dei casi sono confinati nelle «ridotte» di alcuni Paesi e i militanti continuano ad essere una minoranza sparsa forse anche in Europa ed è chiaro che con questi è assai difficile dialogare. Ma esiste un islam che desidera il dialogo, soprattutto favorito dal misticismo dalle confraternite dei sufi: con loro si può costruire uno spazio di crescita comune e di fraterna collaborazione alla ricerca di Dio.
Il problema, la difficoltà più preoccupante per il dialogo è invece l’indebolimento della fede in quelle comunità che, per falso spirito ecumenico o inutile buonismo, rinunciano alla propria identità cristiana. In questo modo ci si condanna all’irrilevanza spirituale in un periodo in cui invece una religione dall’identità consolidata e dalla forte cifra spirituale sta installandosi anche in Italia e ha bisogno di confrontarsi con esperienze spirituali forti come quella che qui si vive per non cedere alla tentazione del laicismo imperante.
Se l’islam non é un pericolo di per sé, come secoli di convivenza dimostrano, può diventarlo quando i cristiani abbandonano o rrendono evanescente la propria fede e la propria appartenenza ecclesiale. A bene vedere esistono anche in Italia positive esperienze di incontro fra cristiani e musulmani; questo confronto nella verità e nell’amore fraterno - quello che p. Jean Pierre chiamava il dialogo dell’amicizia -, come è avvenuto in tanti casi, aiuta ciascuno a meglio riscoprire la propria fede e a saperla testimoniare con rispetto diventando così reciproco arricchimento.
Si tratta ovviamente d’un cammino non semplice né breve, ma il primo passo è chiaro: come cristiani teniamo saldi gli elementi fondanti la nostra identità. Il resto si costruirà con pazienza e perseveranza guidati dallo Spirito Santo che non smette di alitare nel cuore di ogni vero credente.


Autore:
Mons. Giovanni D'Ercole


Fonte:
www.lanuovabq.it

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Aggiunto/modificato il 2021-12-01

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