La leggenda che si leggeva nel Proprium Sanctorum Ecclesiae Patavinae, fino alla revisione di questo nel 1932, lo dice terzo vescovo di Padova, successo a s. Massimo intorno al 166. Secondo tale leggenda, Fidenzio morì appena due anni dopo, nel 168, durante la persecuzione di Marco Aurelio, nel villaggio di Polverara, a quattordici km da Padova, dove fu sepolto, ma il luogo esatto rimase ignoto finché due agricoltori, spinti insistentemente da strane voci, non avvertirono il vescovo di Padova, Gauslino. Questi, mentre nella sua cappella privata chiedeva a Dio consiglio, si vide condotto in estasi nel luogo dove era sepolto il santo.
All'indomani decise di celebrarvi la s. Messa: al momento dell’Elevazione la terra parve tremare sotto i suoi piedi, allora fece scavare e si trovò un’arca sul cui coperchio era scritto: «Corpus beati Fidentii episcopi et confessoris». Era il corpo d’un uomo anziano, ancora intatto; emanava profumo soavissimo ed operò grandi prodigi. Fu caricato su una barca con l’intenzione di trasportarlo a Padova e deporlo nella cattedrale, ma durante la notte, mentre i barcaioli dormivano, la barca che era stata ben fissata alla riva, risalì prodigiosamente la corrente del fiume e andò a fermarsi nel porto di Este. Allora il vescovo affidò il trasporto del corpo santo ad un bifolco che gli si era presentato già pronto, con carro e giovenche; quest'ultime, però, senza incertezze di sorta, portarono l’arca a Megliadino, alle porte della chiesa di S. Tommaso apostolo. Il bifolco, infisso in terra un ramo di quercia ch’era servito a far ombra alle giovenche, disparve e il ramo crebbe in quercia grandiosa.
La leggenda dell’invenzione accolta nel Proprium padovano coincide sostanzialmente con quella riferita dal Cappelletti mentre quella riferita o riassunta da Pietro de’ Natalibus, premette notizie che non sappiamo se attinte da una leggenda anteriore o inventate dall’autore sulla falsariga di testi analoghi. Secondo quest’ultima, Fidenzio sarebbe stato armeno d’origine e martire ad Altino durante la persecuzione di Massimiano. Arrestato insieme con molti altri cristiani, ostinandosi a chiamare demoni le divinità pagane, fu sospeso ad un legno e dilaniato con unghioni di ferro. Riportato in carcere ebbe il conforto d’una apparizione di N. S. Gesù Cristo, che lo guarì da ogni ferita. Avendo i custodi udite strane voci e vista gran luce nel carcere, ne avvertirono il prefetto che, accertatosi della cosa, l’attribuì ad arti magiche e condannò Fidenzio al supplizio del fuoco, che gli diede la morte, il 16 novembre , ma lasciò il suo corpo intatto.
I Bollandisti nel Commento al Martirologio Romano, negano la storicità sia del martirio, sia dell'invenzione del corpo di Fidenzio; negano anzi l’esistenza stessa d’un vescovo padovano di tal nome.
Il Baronio ne introdusse la festa nel Martirologio Romano, il 16 novembre in base ai dittici padovani, che ne fanno un confessore, e a Pietro de’ Natalibus che ne fece un martire.
Gli storici padovani non sono altrettanto perentori, ma neanche loro sono concordi. Gli uni con Dondi dell'Orologio negano sia stato vescovo di Padova: i dittici più antichi l’ignorano, i più recenti ne dubitano; la leggenda del ritrovamento non lo dice vescovo di Padova e la targhetta metallica, anteriore al sec. IX, trovata nel suo sepolcro a Megliadino S. Fidenzio, ed oggi nel Museo Civico di Padova, lo dice Novensi. Ora di sedi novensi l'Onens christianus di M. Le Quienne segnala parecchie in Oriente; quindi si tratterebbe al più di un vescovo orientale, se non armeno, come vuole Pietro de' Natalibus, il cui corpo, non si sa come, venne a finire a Padova. Altri invece, con A. Barzon, difendono la tradizione che ne fa un vescovo, forse martire, padovano. L'espressione Novensi, per quanto incomprensibile, può bene indicare il luogo di provenienza del vescovo; nella quarta riga, abrasa dal tempo, della targhetta sepolcrale sono rilevabili tracce delle lettere ART, che potrebbero essere un resto della parola MARTYR. Se non fosse stato molto onorato a Padova, non si capirebbe perché alla vigilia della distruzione della città ad opera dei Longobardi (602), il vescovo, in procinto di lasciare Padova con parte de cittadini per rifugiarsi nell'estremo lembo della diocesi, nell'isoletta lagunare di Malamocco, abbia portato con sè il corpo del santo, che poi durante una sosta a Polverara depose in quella chiesa; non si capirebbe ancora perché quasi quattro secoli dopo, il vescovo Gauslino (964-978) volendo arrestare l'espansione religiosa e civile di Verona nel confinante territorio padovano della Scodosia, abbia fatto trasportare il corpo del santo da Polverara all'allora Megliadino S. Tommaso, proprio ai confini della diocesi di Padova con quella di Verona, quasi per opporre il santo vescovo padovano a s. Zenone, il popolarissimo vescovo veronese. Fatto singolare è la presenza, rilevata dal Turrini, d'un culto del santo nella Chiesa veronese già prima della traslazione fatta dal vescovo Gauslino. Infatti, la festa di s. Fidenzio compare proprio il 16 novembre nel Martirologio veronese, forse anteriore all'810, conservato nella capitolare di Verona. Ricompare in altri libri liturgici veronesi posteriori: nel Carpsum del sec. XI è nominato non solo al 16 novembre, ma anche al 18 maggio.
Nella chiesa parrocchiale di Megliadino, che prima aggiunse e poi sostituì al titolo di S. Tommaso apostolo quello di S. Fidenzio, questi riposa entro un'arca marmorea, sorretta da colonnine a ridosso dell'altare nella cappella sottostante il coro. Fu scavata quando, nel sec. XIII, l'antica chiesa, eretta da Gauslino, fu restaurata a spese d'una regina d'Ungheria, forse Beatrice d'Este, vedova di Andrea II d'Ungheria il Gerosolimitano, e nonna di Andrea III. Il vescovo Marco Corner nella ricognizione del 1495 rivestì il corpo con mitra, pianeta, stola e manipolo bianchi: il che parrebbe provare ch'egli non lo riteneva martire, ma solo confessore. La quercia della leggenda, schiantata da un uragano nel 1729, rispuntò più bella.
Autore: Ireneo Daniele
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