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Commemorazione di tutti i fedeli defunti

2 novembre

La pietas verso i morti risale agli albori dell’umanità. In epoca cristiana, fin dall’epoca delle catacombe l’arte funeraria nutriva la speranza dei fedeli. A Roma, con toccante semplicità, i cristiani erano soliti rappresentare sulla parete del loculo in cui era deposto un loro congiunto la figura di Lazzaro. Quasi a significare: Come Gesù ha pianto per l’amico Lazzaro e lo ha fatto ritornare in vita, così farà anche per questo suo discepolo! La commemorazione liturgica di tutti i fedeli defunti, invece, prende forma nel IX secolo in ambiente monastico. La speranza cristiana trova fondamento nella Bibbia, nella invincibile bontà e misericordia di Dio. «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!», esclama Giobbe nel mezzo della sua tormentata vicenda. Non è dunque la dissoluzione nella polvere il destino finale dell’uomo, bensì, attraversata la tenebra della morte, la visione di Dio. Il tema è ripreso con potenza espressiva dall’apostolo Paolo che colloca la morte-resurrezione di Gesù in una successione non disgiungibile. I discepoli sono chiamati alla medesima esperienza, anzi tutta la loro esistenza reca le stigmate del mistero pasquale, è guidata dallo Spirito del Risorto. Per questo i fedeli pregano per i loro cari defunti e confidano nella loro intercessione. Nutrono infine la speranza di raggiungerli in cielo per unirsi gli eletti nella lode della gloria di Dio.

Martirologio Romano: Commemorazione di tutti i fedeli defunti, nella quale la santa Madre Chiesa, già sollecita nel celebrare con le dovute lodi tutti i suoi figli che si allietano in cielo, si dà cura di intercedere presso Dio per le anime di tutti coloro che ci hanno preceduti nel segno della fede e si sono addormentati nella speranza della resurrezione e per tutti coloro di cui, dall’inizio del mondo, solo Dio ha conosciuto la fede, perché purificati da ogni macchia di peccato, entrati nella comunione della vita celeste, godano della visione della beatitudine eterna.

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L’origine storica della festa  
La commemorazione liturgica dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno completo alla preghiera per tutti i defunti. Amalario Fortunato di Metz (770-850c), vescovo di Treveri (809), poneva già la memoria di tutti i defunti successivamente a quelli dei Santi che erano già in cielo.  La festività, però, venne celebrata per la prima volta nel cristianesimo nel 998, per disposizione di Odilone di Mercoeur, abate di Cluny, che ordinò a tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 novembre come giorno solenne per la “Commemorazione dei defunti”.
Dal biografo del santo Odilone, san Pier Damiani, si conosce il decreto circa la data del 2 novembre come giorno per la Commemorazione di tutti i defunti dopo la festa di Tutti i Santi, del 1 novembre: “Venerabilis Pater Odilo per omnia Monasteria sua constituit generale decretum, ut sicut prima die Novembris iusta universalis Ecclesiae regulam omnium Sanctorum solemnis agitur, ita sequenti die in Psalmis, eleemosynis e paecipue Missarum solemnis, omnium in Christo quiescentium memoria celebratur” (in Jean Croiset, Esercizi di pietà per tutti i giorni dell’anno, Venezia 1773, 35-36). Il venerabile Padre Odilone emanò, nel 998, per tutti i suoi monasteri cluniacensi un decreto generale, affinché, come il primo di novembre secondo la chiesa universale si celebra la festa di tutti i Santi, così nel giorno seguente si celebri la solenne Messa per tutti i defunti in Cristo con salmi elemosine e canti.  
A partire, poi, dal XIII secolo, con il nome di “Anniversarium Omnium Animarum”, la festa era ormai riconosciuta da tutta la Chiesa Occidentale, apparendo per la prima volta in veste ufficiale nell’Ordo Romanus XIV, composto dal cardinale diacono Napoleone Orsini (1260-1342) e dal cardinale Giacomo Caetani Stefaneschi (1270-1343), poco prima del trasferimento della sede pontificia in Avignone (1309-1377), dove venne ampliato nel 1311, per ordine del papa Clemente V (1305-1314).

Antropologia cristiana
Nel grande mistero dell’esistenza terrena, solo l’uomo gode della libertà ed è responsabile delle sue azioni, perché solo lui è ritenuto artefice del suo destino, che si proietta in una vita trascendente. Ora, non tutte le concezioni antropologiche, che la storia registra, riconoscono l’esistenza di un Dio che, oltre a essere Creatore, sia, nello stesso tempo, anche Giudice. Di conseguenza, l’esistenza di vita ultraterrena, dopo la morte, non da tutte le antropologie viene considerata, perché concepiscono la vita perfetta ed esauriente in sé stessa, cioè “dalla culla alla tomba”, oppure ammettono la sua ciclicità con una nuova reincarnazione.
Nell’antropologia cristiana, invece, si afferma l’esistenza di un Dio Buono, che ha creato tutto ciò che esiste e lo mantiene in essere con la sua Provvidenza. All’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Cristo, affida il compito non solo di governare il mondo creato per la sua conservazione, e gli concede anche il diritto di usarlo per il suo bene personale e per il bene di tutti gli uomini. E di questo delicato compito “amministrativo” è responsabile e dovrà rendere conto al suo Creatore, che, dopo la morte, sarà anche il suo giusto Giudice. Così, al termine della vita terrena, ogni creatura razionale libera e responsabile riceverà dal suo Signore una valutazione del suo operato per ratificare la dovuta ricompensa circa le opere compiute sia in bene che in male, per entrare o nella beatitudine eterna o nell’eterno tormento.
Di questo speciale rendiconto, la teologia cristiana ne distingue due: uno particolare e uno universale. Il primo viene emesso, dopo la morte, per ciascun individuo; l’altro, alla fine del tempo e riguarda tutti gli uomini. Non bisogna pensare al giudizio di Dio come una procedura giudiziale, ma come la normale attività con cui egli realizza il suo disegno generale, che si sviluppa in chiave di relazione personale: Dio invita e l’uomo risponde. Dal tipo di risposta, se di accettazione libera o di libero rifiuto, anche le conseguenze saranno diverse. Il giudizio di Dio assegna a ciascuno la giusta ricompensa: per quelli che muoiono in Cristo, sarà una perfetta ratifica del proprio operato svolto nel corso della vita; per quelli che muoiono lontano da Cristo, invece, una giusta riprovazione che li condannerà a restare soli con sé stessi nelle tenebre misteriose dell’al di là.

Alcune considerazioni teologiche
Al di là dell’occasione storica e dell’accenno antropologico generale, è importante riflettere sul valore profondamente teologico che sottende la Commemorazione di tutti i defunti, perché richiama all’attenzione tutto il mistero dell’esistenza umana dalle sue origini alla sua fine, coinvolgendo direttamente sia la causa efficiente o creativa sia la causa finale o del giudizio ultimo. Per questo veloce riferimento dottrinale, che coinvolge la fede, la cosa migliore è ascoltare il pensiero ufficiale della Chiesa, espresso chiaramente e sinteticamente in alcuni documenti conciliari del Vaticano II, con il dovuto confronto al dato rivelato.

- Comunione dei santi
Al capitolo VII della costituzione dogmatica Lumen Gentium si parla di tre stadi ecclesiali del Corpo Mistico: “Fino a che, dunque, il Signore non verrà nella sua gloria, alcuni dei suoi discepoli saranno pellegrini sulla terra, altri passati da questa vita, stanno purificandosi, e altri godono della gloria contemplando chiaramente Dio uno e trino, Quale Egli è; tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo alla stessa carità di Dio e del prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria” (LG 49).
Si afferma anche la realtà della Comunione dei Santi e della loro intercessione a favore di quanti sono ancora pellegrini sulla terra: “Tutti, infatti, quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito Santo, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in Lui (Ef 4,16). L’unione quindi dei pellegrini sulla terra con i fratelli morti nella pace di Cristo, non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali…offrendo i meriti acquistati sulla terra mediante cristo Gesù, unico mediatore tra Dio egli uomini” (LG 49).
 E afferma, inoltre, la relazione della Chiesa pellegrinante con la Chiesa celeste: “La Chiesa dei pellegrini sulla terra, riconoscendo benissimo questa comunione con il Corpo Mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana, coltivò con grande pietà la memoria dei defunti, e, ‘poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati’ (2Mac 12, 46), ha offerto per loro anche suffragi” (LG 51).
Fondamentale, per comprendere e vivere la Commemorazione dei defunti, è il mistero della Comunione di tutti i membri della Chiesa in Cristo, che non viene interrotta dalla morte, “anzi, secondo la fede, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali”, come l’Apocalisse di Giovanni conferma con la la liturgia celeste, dove partecipano le anime dei beati, e con la stessa liturgia terrena che, soprattutto con il sacrificio eucaristico, si unisce al culto della Chiesa celeste insieme alla venerazione della gloriosa Vergine Maria, degli beati apostoli, dei martiri e di tutti i santi (specialmente i capitoli  4 e 5).
L’unione della liturgia celeste e terrena attorno all’Agnello che sta in piedi, come immolato (Ap 5, 6), cioè “Cristo Gesù, che è morto e   risorto, e sta alla destra di Dio e intercede per noi” (Rm 8, 34; Eb 7, 25), è la condizione indispensabile per ogni forma di comunione, nella carità, tra i vari membri dei diversi gradi della Chiesa. Per cui, secondo la fede della Chiesa, i beati pregano per noi sulla terra e intercedono per la nostra debolezza, e ogni nostra invocazione a loro è un riconoscimento di Dio, per mezzo di Cristo Gesù, che è l’unico Mediatore e Redentore.
E per quanto riguarda le anime dei defunti, che dopo la morte hanno bisogno ancora di purificazione, la Chiesa da sempre “ha offerto per loro anche i suoi suffragi” (GS 41); e crede, che per questa purificazione “riceveranno un sollievo [...], mediante suffragi dei fedeli viventi, come il sacrificio della messa, le preghiere, le elemosine e le altre pratiche di pietà, che i fedeli sono soliti offrire per gli altri fedeli, secondo le disposizioni della Chiesa” (LG 50).
Anche i Princìpi e norme per l’uso del Messale romano spiegano abbastanza chiaramente il senso di questo “consorzio vitale” tra i membri della Chiesa, che raggiunge il culmine della perfezione nella celebrazione eucaristica, al momento delle intercessioni, che così si esprime: “l’eucaristia viene celebrata in comunione con tutta la Chiesa, sia celeste sia terrestre, e che l’offerta è fatta per essa e per tutti i suoi membri, vivi e defunti, i quali sono stati chiamati a partecipare alla redenzione e alla salvezza acquistata per mezzo del corpo e del sangue di Cristo” (n. 79).

- Significato della morte cristiana
La concezione antropologica cristiana offre un modo tutto suo di considerare il fatto ineluttabile della morte. La morte considerata in sé stessa non è qualcosa di desiderabile, né un avvenimento che si possa abbracciare con animo tranquillo, senza superare la naturale ripugnanza. Nella visione cristiana, la morte, pur essendo un fatto di diritto naturale, come ricorda Duns Scoto, è contro la volontà di Dio (Sap 1, 13-14; 2, 23-24) e, quindi una conseguenza del peccato: “il salario del peccato è la morte” (Rm 6, 23). La morte allora si può considerare come fatto morale, come ricorda Paolo, e come necessità naturale come afferma il Cantore dell’Immacolata.
Il cristiano può superare il timore della morte, appoggiandosi su altri motivi, come la fede e la speranza, che aprono un diverso orizzonte alla stessa morte. La morte accettata con fede e nella fede di “abitare presso il Signore” (2Cor 5, 8) realizza il desiderio di comunione con Cristo, e giunge anche a lodare il Signore per la morte, non in sé stessa, ma in quanto realizza la speranza di possedere il Signore. Tale sembra la concezione cantata da Francesco d’Assisi nel famoso Cantico delle creature. La morte allora diventa, per il credente, come la porta che conduce alla comunione con Cristo.
 Questo sentimento positivo della morte è direttamente proporzionato   alla “morte nel Signore”, che conduce alla beatitudine: “beati i morti nel Signore” (Ap 14, 13). In questo modo, la vita terrena è naturalmente ordinata alla comunione con Cristo, dopo la morte, che è un valore superiore alla vita terrena. Superiorità che giustifica il desiderio mistico della morte, che apre la via alla vita eterna. Questo modo di concepire la morte diventa una partecipazione al mistero pasquale di Cristo, di cui il battesimo, nel quale si muore misticamente al peccato, partecipa della risurrezione di Cristo (Rm 6, 3-7), e l’Eucaristia ne è la garanzia, il fondamento e anche la perfezione: fundamentum et forma, direbbe il Cantore dell’Immacolata.
Oltre alla “morte nel Signore”, c’è anche la possibilità della morte fuori del Signore, che conduce alla morte seconda come ricorda l’Apocalisse (20, 14) e anche il Cantico delle creature. In questa seconda accezione della morte, la forza del peccato, attraverso il quale la morte entrò nel mondo (Rm 5,12), manifesta, in grado sommo, la sua capacità di separare da Dio.

- L’uomo è per la risurrezione
Anche dal concilio Vaticano II si apprende che l’uomo è per la risurrezione. Afferma: “Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. [...] L’uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana. Difatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo: a questa profonda interiorità egli torna, quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio decide del suo destino. Perciò riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da fallaci finzioni che fluiscono unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma, invece, va a toccare in profondità la verità stessa delle cose” (GS 14).
L’autoconsapevolezza dell’uomo di essere superiore a tutte le altre creature terrene ha il fondamento nella sua capacità di possedere Dio (capax Dei) sia con la conoscenza e soprattutto con l’amore. Questa differenza fondamentale si manifesta anche nella tendenza innata alla felicità, la quale fa sì che l’uomo aborrisca e respinga l’idea di un suo totale annientamento con la morte, anelando a una vita ultraterrena comunque intesa, dal momento che la sua anima, immortale e spirituale, tende naturalmente verso la sua origine, cioè verso il suo Creatore.
Questo riferimento antropologico fondamentale rende possibile anche una escatologia. Difatti, la realtà dell’uomo, nell’antropologia cristiana, include una dualità di elementi (corpo e anima), che si possono separare temporaneamente con la morte, tanto che l’anima può sussistere separata, conservando sempre la sua intima e profonda tendenza a riunirsi al suo corpo.  E questo perché lo stato di sopravvivenza dell’anima, dopo la morte, non è definitivo né ontologicamente ultimo, bensì intermedio transitorio e ordinato alla risurrezione.
Un cenno a questa interpretazione duale dell’uomo aperto alla risurrezione lo si trova nel logion evangelico: “non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28). Esso, infatti, insegna che l’anima sopravviva dopo la morte terrena, finché nella risurrezione si unisca, di nuovo, al suo corpo.  
 Anche nel VT si trovano affermazioni che inducono a questa interpretazione. Si pensi, per esempio, al secondo libro dei Maccabei, al capitolo settimo presenta il martirio per la verità come l’occasione privilegiata, perché la fede possa illuminare sia il mistero delle origini o creazione e sia il mistero della fine o vita eterna (2Mac 7, 9-36); e al libro della Sapienza che parla di quelli che “agli occhi degli stolti parve che morissero; e la loro fine fu ritenuta una sciagura” (Sap 3, 2), mentre “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” (Sap 3, 1). In breve, questi cenni biblici aiutano a comprendere con chiarezza e sicurezza di fede che il Signore ha il potere di attuare la risurrezione degli uomini.
 
- La risurrezione di Cristo e quella dell’uomo
L’apostolo Paolo scriveva ai corinzi: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Ebbene Cristo non solo risuscitò di fatto, ma egli è “la risurrezione e la vita” (Gv 11,25) ed è anche la speranza della nostra risurrezione. Perciò i cristiani di oggi, come quelli dei tempi passati, nel Credo niceno-costantinopolitano, nella stessa formula “dell’immortale tradizione della santa Chiesa di Dio”, nella quale professano la fede in Gesù Cristo, che “risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture”, aggiungono: “Aspettiamo la risurrezione dei morti”. In questa professione di fede riecheggiano le testimonianze del Nuovo Testamento: “Risusciteranno i morti in Cristo” (1Ts 4,16). “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20). Questo modo di parlare implica che il fatto della risurrezione di Cristo non è un qualcosa di chiuso in sé stesso, ma si estenderà un giorno a quelli che sono di Cristo. Poiché la nostra risurrezione futura è “l’estensione della medesima risurrezione di Cristo agli uomini”, s’intende bene che la risurrezione del Signore è modello della nostra risurrezione. La risurrezione di Cristo è pure la causa della nostra risurrezione futura, “poiché, se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti” (1Cor 15,21).

- Comunione con Cristo dopo la morte
Dalla promessa fatta da Gesù crocifisso al buon ladrone si ricava l’esistenza di un certo stadio intermedio tra la morte e la risurrezione, insieme all’essere in comunione con lo stesso Cristo: “In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Gesù vuole accogliere il “buon ladrone” in comunione con sé, immediatamente dopo la morte. Lo stesso Stefano, durante la lapidazione, manifesta la medesima speranza di entrare in comunione con Cristo: “Signore Gesù, accogli il mio spirito” (At 7,59), con il desiderio di essere accolto immediatamente da Gesù nella sua comunione.
 L’esistenza di uno stato intermedio è presente anche in Paolo, specialmente quando scrive: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette, infatti, tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne” (Fil 1, 21-24).
 Lo stato dopo la morte è desiderabile soltanto perché implica unione e comunione con Cristo. Paolo con grande gioia parla della speranza della parusia del Signore: “il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21). Lo stato intermedio, perciò, viene concepito come transitorio, con la speranza sempre della risurrezione: “È necessario che questo essere corruttibile [cioè il corpo] si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità” (1Cor 15,53).

- Quando avverrà il giudizio?
È una domanda abbastanza frequente. E Gesù spesso ammonisce: “Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13); “Il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Mt 16, 27).  
Venuta gloriosa di Gesù e Giudizio universale saranno un solo e stesso avvenimento, ultima sequenza della storia, ultimo atto della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, compimento della liberazione umana, della divinizzazione umana.
Il principio della retribuzione divina è presente abbastanza chiaramente in Paolo: “Il giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Rm 2, 6-8); “tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor 5,10).

- Il giudice dei vivi e dei morti
Pietro proclama a Cesarea: “Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno... E ci ha ordinato di annunziare al popolo e d’attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio” (At 10, 39-42).
L’espressione “dei vivi e dei morti” richiama la teoria dei Sadducei, che, negando la risurrezione, divideva l’umanità in due categorie: al di qua della morte, i vivi, e al di là, i morti. Gesù, invece, replica: “Quanto alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio d’Abramo, il Dio d’ Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,32). Pertanto, Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i defunti nel Signore non sono dei morti, ma dei vivi; solo che la vita è diversa. In questo senso, Gesù nega che si possa fare distinzione fra morti e vivi: esistono solo dei vivi. La morte non produce dei morti, ma è solo un passaggio verso un’altra vita. Difatti, il termine “defunto” (da latino defunctus: colui che ha abbandonato le sue funzioni sulla terra) non è un morto in senso assoluto, ma uno che vive in un modo diverso da quello che ha lasciato o abbandonato sulla terra. E nella sua venuta gloriosa, Cristo non privilegerà nessuno, affinché nessuno ne risulti frustrato
Paolo, parlando della fine del mondo in cui ci saranno ancora dei “viventi”, scrive: “Ecco, io vi annunzio un mistero: non tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà, infatti, la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati... si compirà allora la parola della Scrittura: la morte è stata ingoiata per la vittoria... per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 15, 51-57).
E sempre Paolo precisa: la risurrezione è per tutti. Il Risorto non dimenticherà nessuno dei suoi, sia esso morto che vivo, perché tutti parteciperanno al grande giorno e alla sua festa. Scrive: “Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine... discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre col Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1Ts 4,13).
 Alle consolanti parole di Paolo, si possono aggiungere anche quelle di Pietro per terminare questo veloce riferimento sulla Commemorazione di tutti i fedeli defunti con la testimonianza diretta dei due grandi Apostoli: “Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi... Quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate di essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace” (2Pt 3, 8-14).
 In breve, come la cristianità primitiva, illuminata dalla fede degli Apostoli, interpretò il ritorno di Cristo come un avvenimento carico di speranza e di gioia, così anche i cristiani di oggi dovrebbero aspettare con profonda fede e gioiosa speranza il festoso giorno del “giudizio dei vivi e dei morti”.


Autore:
P. Giovanni Lauriola ofm

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Aggiunto/modificato il 2018-01-19

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