Era romano; suo padre si chiamava Mammolo (o Mammalo); la famiglia, a giudicare dall'espressione "generis decus" usata nella sua epigrafe mortuaria, era di elevata condizione sociale. Pochissimo sappiamo di lui. Come per altri pontefici di questo periodo - segno eloquente della gravissima instabilità della situazione interna del tempo a Roma - manca una sua notizia biografica tra le vite d'intonazione ufficiosa dei papi raccolte nel Liber pontificalis, dove troviamo registrati soltanto la sua natio ("natione Romanus"), il nome del padre e la durata del pontificato. Solo tre sono rimaste delle sue lettere; e dei suoi privilegi, uno solo. Frammentarie, occasionali, scame le notizie che lo riguardano in fonti non romane. Benedetto IV salì alla cattedra di S. Pietro in un momento particolarmente difficile così per il papato, come per l'Impero e per il regno italico. Tre anni appena erano decorsi dal macabro sinodo romano "del cadavere", tenuto da Stefano VI per infamare la memoria di Formoso. Teodoro II, il secondo dei due papi successi nell'897 a Stefano VI, strangolato in carcere nell'agosto (l'altro, Romano, era morto nel novembre), nei venti giorni di vita rimastigli dopo la consacrazione (si spense nel dicembre), aveva trovato modo di riabilitare la memoria di Formoso, e di farne nuovamente deporre in S. Pietro la salma dopo una messa solenne celebrata in suo suffragio. Il tentativo degli antifonnosiani di tornare alla riscossa, acclamando papa uno dei loro, il diacono Sergio, era stato vittoriosamente rintuzzato dagli avversari: Sergio aveva dovuto fuggire da Roma, e un presbitero formosiano, Giovanni, era stato consacrato papa al principio dell'898. Giovanni IX aveva voluto cercare nella tutela dell'imperatore Lamberto di Spoleto, che aveva probabilmente appoggiato allora la fazione prevalsa, lo strumento capace di sottrarre le sorti della sede papale alle lotte d'interessi e d'ambizioni personali e di gruppi che dilaniavano l'alto clero e l'aristocrazia laica di Roma. Il sinodo romano dell'898 aveva ribadito il principio che alle elezioni e consacrazioni papali fossero presenti missi imperiali, che garantissero il rispetto dell'ordine pubblico e della persona dell'eletto. Ma quando a Giovanni IX succedette Benedetto IV, il principio non poté essere applicato perché perdurava la vacanza del trono imperiale, apertasi con la repentina morte di Lamberto il 15 ottobre 898. Non si ha notizia di disordini per la successione. Ma l'incertezza sul mese di inizio dei nuovo pontificato impedisce di stabilire se alla mancanza di notizie corrisponda la realtà di una mancanza anche di contrasti. I cataloghi dei papi attribuiscono a Benedetto IV un numero di mesi che varia dall'uno all'altro in modo che lascia oscillare la data della sua consacrazione fra il gennaio - inizi del febbraio (Duchesne) e il maggio (Jaffé-Löwenfeld) del 900. Si aggiungano le correlative incertezze che si hanno per la durata del pontificato di Giovanni IX: si oscilla fra il gennaio 898-gennaio 900 (Duchesne) e l'aprile 898-maggio 900 (Jaffé-Löwenfeld). là dunque impossibile dire se la successione fu rapida, e quindi indisturbata, o se dopo la morte di Giovanni IX si ebbe un intervallo di alcuni mesi, e quindi si debba pensare a contrasti. Certo è che anche il nuovo papa era un formosiano e che la sua ordinazione era stata fra quelle celebrate da Formoso. Lo attesta un polemico presbitero contemporaneo del partito formosiano, bene informato, Ausilio, che dice Benedetto IV "de ordinatione papae Formosi", "de ordinatione quam papa Formosus instituit". L'atteggiamento dei grandi del regno itafico di fronte alle sfortune di Berengario I era senza dubbio tra i fattori che più si potevano ripercuotere sulle vicende della situazione interna a Roma. L'antagonista dello scomparso Lamberto era bensì potuto riapparire sulla scena come re d'Italia; ma, dopo l'umiliante disfatta inflittagli sul Brenta dagli Ungari il 24 settembre 899, si teneva cautamente rinchiuso dentro le mura di Pavia, mentre le torme feroci dei suoi vincitori correvano devastando da Vercelli al litorale veneto. Il doge di Venezia Pietro, quando Benedetto IV era papa da alcuni mesi, o da un mese appena, ebbe il vanto di mettere in rotta quei predoni il 29 giugno 900. Il re d'Italia neppure quel momento favorevole colse per riprovarsi a dar battaglia agli Ungari: preferì ottenere con le trattative che il terribile flagello s'allontanasse dal suolo italiano. E già nell'autunno si vide contrapporre da molti dei grandi del regno - tra essi il potente marchese di Toscana Adalberto II - un nuovo antagonista nel re di Provenza Ludovico, acclamato re d'Italia a Pavia nell'ottobre. Ancora una volta Berengario I si sottrasse alla lotta, ritirandosi al di là dell'Adda nella sua marca del Friuli. Quale parte nella vicenda abbia avuto Benedetto IV, dalle fonti non risulta, ma appare sufficientemente fondata la comune opinione che anch'egli sin dall'inizio sia stato favorevole alla chiamata di Ludovico. Ne è segno la prontezza con cui lo accolse a Roma, e qui lo incoronò imperatore il 22 febbraio 901. Ne è conferma l'ovvia considerazione che il nuovo papa era senza dubbio costretto a giudicare della massima urgenza che avesse termine la vacanza del titolare di quella dignitá imperiale, in cui già il suo predecessore aveva riposto le speranze di un'efficace tutela contro lo strapotere delle fazioni romane. E Berengario non era certo l'uomo a cui pensare in quel momento. In data del febbraio 901 è il testo, giunto sino a noi nell'originale, di un placito, che nella loggia maggiore del palazzo contiguo alla basilica di S. Pietro, tenne il "serenissimus imperator augustus", insieme col papa, per la causa intentata dal vescovo di Lucca Pietro, allo scopo di recuperare alla sua Chiesa fattorie e beni, dei quali si era appropriato un cittadino lucchese. Ben undici dei giudici che ebbero parte nella procedura erano romani, e di essi sono precisati i nomi: Stefano, Teofilatto, Gregorio, Graziano, Adriano, Teudero, Leone, Crescenzio, Benedetto, Giovanni e Anastasio. Solo a Gregorio è attribuito nel documento una qualifica d'ufficio: "nomenculator". Era dunque uno degli alti funzionari dell'amministrazione centrale pontificia. Non sembra identificabíle con nessuno dei due omonimi che risultano nella stessa carica, l'uno, per l'875-876, al tempo di Giovanni VIII (e nell'876 si era visto comminare la scomunica, ed aveva dovuto fuggire da Roma, perché tra i sospetti di una congiura dell'aristocrazia romana contro quel papa); l'altro, per l'885, al tempo di Adriano III. Gregorio non era presumibilmente il solo, degli undici giudici romani, che rivestiva un alto grado nell'amministrazione centrale pontificia. Per alcune altre omonimie, infatti, l'identità sembra invece ammissibile. Un Leone primicerio dei notai è il datario delle lettere datate 31 agosto 900 di Benedetto IV per la questione di Argrino vescovo di Langres, delle quali parleremo in seguito. Un Anastasio primicerio dei defensores è il datario di una lettera del 13 gennaio 899 di Giovanni IX, e dell'atto del 18 maggio 901 di Benedetto IV, in favore di Fulda al quale si avrà occasione di accennare più oltre. Un Benedetto risulta nell'897 protoscriniario, ed è oggetto d'interrogatorio nel sinodo romano dell'898. Due degli undici nomi avranno risonanza famosa nella storia di Roma nel corso del sec. X: Teofilatto e Crescenzio. Comunemente, sulle orme di insigni storici e autorevoli studiosi, come il Gregorovius, il Sickel, il Duchesne, il Fedele, si vuol trovare in questo placito la prima menzione di quel Teofilatto duca, senatore, "magister militum sacrique palatii vestararius", col quale cominciarono le fortune della famiglia che dominò Roma nella prima metà del sec. X, sino a raggiungere l'apice della sua potenza col principe Alberico. Ma è preferibile attenersi alla diversa opinione espressa (1933) dal Gerstenberg: l'inverosimiglianza che il Teofilatto del placito tenuto da Ludovico III e dal formosiano Benedetto IV fosse la stessa persona dell'omonimo fautore dell'antiformosiano Sergio III (904-911) fa piuttosto pensare all'altro omonimo, che svolse a lungo un'attività ben più modesta, rimasta sempre nell'ambito amministrativo degli uffici pontifici, e cioè al Teofilatto saccellarius datario di una lettera 23 maggio 905 di Sergio III, che rivestiva questa carica ancora al tempo di Giovanni X (914-928). Non risultano invece particolari difficoltà a vedere nel Crescenzio del nostro placito lo stipite della famiglia chiamata da questo nome, che ebbe tanta parte nella storia di Roma nella seconda metà dei sec. X. Nel placito si afferma che la controversia lucchese era una delle molte, che l'imperatore intendeva definire "iuste et legaliter" nel dare inizio alla sua azione "de stabilitate sancte Dei homnipotentis Ecclesie reique publice statu". L'affermazione significava che i rapporti fra Benedetto IV e Ludovico III erano stati impostati nel quadro delle tradizioni carolinge che avevano preso le mosse da Carlomagno, erettosi a supremo tutore non solo dello Stato, ma anche della Chiesa, sul modello degli imperatori di Bisanzio. La tradizione, nel corso del sec. IX, si era venuta configurando col profilo sempre più preciso di un progressivo rafforzarsi della vigilanza imperiale, come mai avevano preteso arrogarsi gli imperatori di Bisanzio, sul clero e sul laicato romani nelle stesse elezioni e consacrazioni dei papi. Le tappe principali degli sviluppi in questo senso si erano avute nell'824, con Lotario I ed Eugenio II; nell'844, con Lotario I e Sergio II; nell'850, con Lotario I, Ludovico II e Leone IV; da ultimo, nell'898, con Lamberto e Giovanni IX. Benedetto IV non aveva meno bisogno dei predecessori di trovare tutela nell'impero, perché la sua posizione, nella città stessa dove il papato aveva sede, non era meno precaria. Ma degli accordi, che nel 901 poterono intervenire fra il nuovo papa e il nuovo imperatore, nulla ci dicono le fonti. Non siamo quindi in grado di stabilire se, e quali partìcolari caratteri poterono allora assumere rispetto a quelli di Giovanni IX con Lamberto. Un carattere ebbero certo in comune: la caducità. Le speranze riposte in Lamberto da Giovanni IX erano svanite all'atto stesso della repentina morte di quell'imperatore, per la conseguente vacanza dell'autorità imperiale; quasi con la stessa rapidità svanirono anche le speranze che Benedetto IV poté riporre in Ludovico III. Il provenzale datava ancora da Roma il 2 marzo 901 un diploma rilasciato, per intercessione del papa, in favore della Chiesa di Arezzo, con la conferma dei suoi privilegi, possessi e diritti; dopo appena nove giorni, risulta già di ritorno a Pavia. Troppo poco tempo era rimasto a Roma, perché la sua azione potesse avere una durevole efficacia sulla situazione interna della città. D'altra parte il nuovo imperatore si dimostrò incapace di conservarsi il prezioso appoggio del marchese di Toscana, e del suo ornonimo, e non meno potente, marchese d'Ivrea; né volle impegnarsi in una lotta a fondo con Berengario, uscito alla riscossa dalla sua roccaforte di Verona: preferì trattare e concludere il poco onorevole accordo, che lo impegnava all'immediato ritorno nel suo regno di Provenza, e alla promessa di non rimettere più piede in Italia. Benedetto IV era morto da due anni quando Ludovico III, ricomparso al di qua delle Alpi in onta alla promessa, chiuse definitivamente la sua avventura italiana a Verona nel luglio 905, prigioniero di Berengario I, e, per suo ordine, accecato. Nel quadro dei buoni rapporti del papa con il marchese di Toscana rientra certo la sua intercessione per la conferma imperiale dei privilegi della Chiesa di Arezzo; ma si era ancora nella fase dell'amicizia fra Adalberto II e Ludovico III. Se, e in qual modo, Benedetto IV abbia agito al momento dell'epilogo fallimentare del primo tempo dell'avventura italiana del provenzale; se, e quali contraccolpi immediati nella situazione interna di Roma potè avere la rinnovata paralisi dell'autorità imperiale in Italia, ancora una volta per l'estrema povertà delle fonti non possiamo neppure intravvedere. Dobbiamo alla polemica in difesa della validità delle ordinazioni formosiane la conoscenza di un energico intervento di Benedetto IV nelle vicende della sede episcopale di Napoli. Morto qui nell'898 il vescovo e duca Atanasio II, clero e maggiorenti avevano invitato ad accettare la successione episcopale uno zio paterno del defunto, Stefano. Questi, già vescovo di Sorrento, ne era stato cacciato circa trent'anni prima da una fazione avversa, e, dopo tutta una serie di dure traversie, viveva esule ed in strettezze a Napoli, sebbene in suo favore si fosse interposto anche Giovanni VIII. Stefano aveva subordinato la sua accettazione al parere della Sede apostolica, la quale si pronunciò appunto con Benedetto IV. Il papa non solo approvò con l'"auctoritas" propria, "nec non et cleri sanctaeque Romanae Ecclesiae consensu atque subscriptione" - tenne dunque un concilio apposta -; ma mandò a Napoli due vescovi, Romano e Cosmate, perché, con i poteri di inviati "ab Apostolica Sede", intronizzassero Stefano. Nel 904 l'antiformosiano Sergio III fece proclamare in un smodo romano la nullità delle ordinazioni celebrate da Formoso e da quanti Formoso aveva ordinato. Vi fu allora chi impugnò la validità anche della decisione presa da Benedetto IV per la sede episcopale napoletana; ed allora uscirono gli scritti che ci hanno conservato memoria di questo episodio di notevole rilievo storico: il Libellus in defensionem Stephani episcopi di Ausilio, e una lettera nello stesso senso indirizzata a Napoli dal presbitero e monaco di S. Modesto di Benevento Rodelgrimo, e dal diacono beneventano Guiselgardo. Qualche cosa intravvediamo dalle fonti dei rapporti avuti da Benedetto IV con il regno di Francia. Dallo storico degli abati di St. Bertin, Folcwin di Lobbes (m. 990), sappiamo che il papa scomunicò un vassallo del conte di Fiandra Baldovino II, un certo Winedmaro (Guinemer), che il 17 giugno 900 aveva barbaramente trucidato l'arcivescovo di Reims Folco (Foulques), venuto in odio al suo signore perché da otto anni si opponeva alle sue pretese di ottenere dal re la concessione delle abbazie di St. Bertin e di Saint-Vaast; e sappiamo di una lettera scritta allora da Benedetto IV a tutti i vescovi di Francia, perché condannassero alla loro volta eodem modo" il sacrilego omicida. Due delle tre sole lettere di Benedetto IV delle quali ci sia rimasto il testo ci fanno conoscere un deciso intervento di questo papa nelle vicende anche delle sedi episcopali francesi. Da un decennio era controversa la posizione dell'episcopato di Langres, dove ad Argrino, insediatovi vescovo nell'888 dall'arcivescovo di Lione Aureliano, era stato opposto un parente di Carlo III il Semplice, Teutboldo, a opera dell'arcivescovo di Reims Folco, che nell'889 aveva vinto le resistenze di Aureliano riuscendo a far consacrare il suo patrocinato dal papa Stefano V. Argrino aveva ripreso possesso della sede quattro anni dopo, e da Formoso aveva ottenuto, intorno all'896, anche l'uso del pallio; era stato subito destituito dall'antiformosiano Stefano VI (896-897); e nel maggio 899, su richiesta del clero e del laicato di Langres, e su parere conforme di un sinodo romano di vescovi, reintegrato da Giovanni IX. Aveva tuttavia ancora oppositori, perché dovette mandare a Benedetto IV suoi inviati, che portarono anche al nuovo papa i documenti relativi alla sua elezione, alla sua consacrazione ed alla sua intronizzazione. Ed a Benedetto IV furono inoltre rimessi scritti del clero e del laicato di Langres, che attestavano la piena regolarità della procedura seguita per la sua elezione. Il papa, esaminati i documenti rispose con due lettere in data 31 agosto 900, indirizzate, una agli arcivescovi, vescovi, "gloriosissimi re", duchi e conti "delle Gallie"; l'altra, al clero ed al laicato di Langres. Nella prima, riassunti i precedenti della questione, comunicava di aver convocato alla sua volta, nel palazzo lateranense, dopo il riesame della documentazione prodotta, un sinodo di vescovi per sentirne il parere in merito; e dichiarava che, d'accordo con loro., e modificando canonicamente "in melius", "causa necessitatis et utilitatis", la sentenza di Stefano VI, senza con ciò intendere di fame motivo di riprovazione per quel suo predecessore, confermava le decisioni di Giovanni IX, e quindi il riconoscimento di Argrino, "nostro apostolico privilegio solemniter munitus", a legittimo vescovo di Langres, "sine alicuius contradictione"; comunicava inoltre di aver disposto il rilascio ad Argrino di un "auctoritatis nostrae privilegium" con la conferma anche dell'uso del pallio conferitogli da Formoso. Al clero e al laicato della città Benedetto IV dichiarava che il presule da loro, a quanto attestavano per iscritto, "unanimiter electus et expetitus", era canonicamente il loro superiore, e a lui, dunque, come a proprio vescovo, dovevano obbedienza totale. Per la storia delle relazioni della Chiesa di Francia col papato nei sec. IX-X l'episodio ha un'evidente importanza sotto un duplice aspetto. Provava, da un lato, che anche in tale ambito Benedetto IV si manteneva coerente al suo atteggiamento di formosiano ed alla linea di condotta di Giovanni IX; dall'altro, che l'idea del primato romano conservava in Francia la sua forza anche di fronte a quei metropoliti, nonostante le contingenti debolezze del papato in Italia. L'intervento di Benedetto IV era infatti la diretta conseguenza di un ulteriore appello rivolto da Langres al supremo giudizio dell'autorità apostolica per accertare chi se ne poteva dire legittimamente vescovo. Anche per il regno di Germania ci rimane per questo periodo una testimonianza di continuità delle tradizioni, che legavano al papato il monachesimo di origine bonifaciana. L'abate di Fulda Huoggo, rivolse una istanza a Benedetto IV, come i suoi predecessori Teotone, nell'857, e Sigehard, nell'875, l'avevano rivolta rispettivamente a Benedetto III ed a Giovanni VIII, per ottenere la conferma dei privilegi del grande monastero fondato e prediletto dal santo missionario della Germania pagana, fedele servitore della Chiesa di Roma, e fervido esecutore ed interprete dei suoi insegnamenti e delle sue norme disciplinari. Benedetto IV accolse l'istanza con atto del 18 maggio 901, che conosciamo nella copia conservata a Fulda, unico dei suoi documenti di questa natura che sia giunto sino a noi. Ad attestarci che Benedetto IV non rimase indifferente alla dolorose vicende dei cristiani nell'Oriente in balia degli infedeli, e che anche tra di loro alto prestigio conservava la sede di S. Pietro, è rimasto solo un indizio: l'ultima delle sue tre lettere salvatesi dal generale naufragio. Va legata con una circolare commendatizia, della quale ci è rimasto il testo latino, senza la data, che il patriarca di Gerusalemme Elio III (m. 907) aveva scritto agli "episcopi, presbyteri, hegumeni, reges, comites", ed all'"universus orthodoxus populus christianus", per esortare a dare ciascuno il proprio contributo personale al vescovo profugo di Amasea in Cappadocia, Malaceno, che andava girando per procurarsi il denaro necessario al riscatto di trenta suoi monaci languenti in prigionia dei Turchi. Altri venti avevano preferito essere uccisi, piuttosto d'indursi a calpestare la Croce. Anche Malaceno era caduto nelle mani dei Turchi, e doveva la liberazione al cospicuo riscatto di 120 bisanzi versati per lui, e per uno dei suoi monaci, da "viri philochristi". Il presule profugo si era presentato al pontefice. Gli aveva certamente fatto leggere la commovente commendatizia del patriarca gerosolimitano. E Benedetto IV scrisse alla sua volta una lettera circolare, anch'essa giuntaci senza la data, diretta "omnibus episcopis seu archiepiscopis, necnon abbatibus atque comitibus seu iudicibus, verum etiam et universis orthodoxis christianae fidei cultoribus". Li informava di queste drammatiche vicende, e li esortava ad accogliere con benevolenza, ad ospitare, aiutatare ed assistere, perché potessero trasferirsi di città in città., sani e salvi, senza soffrire rapine e molestie, quegli esuli, "pro amore Dei et reverentia principuni apostolorum Petri et Pauli, ad cuius limina isti pervenerunt". Nella lettera papale si parlava di "Saraceni", e non di "Turci", che erano un popolo delle regioni adiacenti al Mar Caspio di razza diversa da quella degli Arabi. Lo scambio non può stupire. Certo a Roma, e nell'Occidente in genere, non si aveva chiara idea delle differenze etniche degli infedeli, che infestavano con le loro scorrerie le remote zone armeno-anatoliche; ed il nome di "Saraceni" era assai più noto e tale da destare profonda impressione, che non quello di "Turci". L'epigrafe mortuaria, elogiastica secondo l'uso, diceva di Benedetto IV che era stato "pontifex magnus, praesul eximius"; e si chiudeva invitando chi contemplava la sua tomba in S. Pietro, ad esclamare, "conpuncto corde: / 'Cum Christo regnes, o Benedicte, Deo!". Flodoardo, lo storico della Chiesa di Reims (m. 966), ebbe modo di leggerla in occasione di un suo viaggio a Roma intorno al 936; la trascrisse insieme con altri epitaffi papali; ad essa informò le parole di lode da lui dedicate a Benedetto IV nel suo componimento esametrico De Christi triumphis apud Italiam. Senza dubbio egli ben ricordava che questo papa aveva scomunicato l'assassino di Folco arcivescovo di Reims. La brevità del pontificato, ed il pochissimo che ne sappiamo, non consentono di accertare sino a qual punto gli elogi di rito trovino corrispondenza nella realtà storica. A proposito dell'infausto epilogo del primo tempo dell'avventura italiana di Ludovico III abbiamo osservato che nulla traspare dalle fonti sui contraccolpi immediati nella situazione interna di Roma della rinnovata paralisi dell'autorità imperiale in Italia. Certo è che i contrasti delle fazioni cittadine, se anche sotto Benedetto IV rimasero latenti, tornarono ad esplodere subito dopo la sua morte, con le violenze che contrassegnarono l'avvento al papato di Leone V, di Cristoforo e di Sergio III (il diacono acclamato papa dagli antiformosiani già alla fine dell'898), succedutisi uno all'altro, e l'uno contro l'altro, nei pochi mesi decorsi dall'agosto 903, data alla quale Benedetto IV era già morto, al gennaio 904.
Autore: Ottorino Bertolini
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