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Beato Giuseppe Kowalski Sacerdote salesiano, martire

4 luglio

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Siedliska, Polonia, 13 marzo 1911 - Auschwitz, Polonia, 4 luglio 1942

Il beato Giuseppe (Jozef) Kowalski nacque a Siedliska, in Polonia, nel 1911. Entrò tra i salesiani nel 1927 e divenne prete nel 1938. Apprezzato conferenziere, secondo il carisma della congregazione di don Bosco, fu educatore. Anche attraverso la musica: diede vita infatti a un coro giovanile. Il suo apostolato presso la parrocchia di Maria Ausilio dei Cristiani fu interrotto il 23 maggio del 1941, quando i nazisti lo prelevarono con 11 confratelli. Divenne la matricola 17.350 di Auschwitz. Nel 1942, per il suo rifiuto di calpestare un rosario, fu sottoposto a lavori massacranti. Fu poi torturato e annegato dalle guardie. Il 13 giugno del 1999 Papa Wojtyla lo ha beatificato a Varsavia con altri 107 martiri del nazismo. (Avvenire)

 

Emblema: Palma

Martirologio Romano: Nel campo di sterminio di Auschwitz vicino a Cracovia in Polonia, beato Giuseppe Kowalski, martire, che, in tempo di guerra, fu messo per Cristo in carcere, dove sotto tortura consuṃ il suo martirio.


Giuseppe Kowalski nacque a Siedliska (Polonia), piccolo paese contadino nelle vicinanze di Rzeszów, il 13 marzo 1911, figlio di Wojciech e Sofia Borowiec, una famiglia profondamente credente e praticante. Fu battezzato il 19 marzo, festa di San Giuseppe, nella Chiesa parrocchiale di Lubenia, distante circa quattro chilometri dal paese che in quel tempo non aveva una chiesa. Finita la scuola elementare, a 11 anni si recò, secondo i desideri dei genitori, nel collegio San Giovanni Bosco di Os´wie˛cim, dove restò per cinque anni. In questi anni si distingue per una non comune pietà, per diligenza, allegria e spirito di servizio; è amato da tutti e annoverato tra i ragazzi migliori. Apparteneva alla Compagnia dell’Immacolata, era presidente del gruppo missionario e animava iniziative religiose e culturali tra i coetanei. Niente di strano che maturasse in lui il desiderio di seguire le tracce dei propri educatori e che questi vedessero come una grazia i segni di una vera vocazione.
L’ambiente educativo e le proposte di formazione cristiana della sua adolescenza richiamano tutti gli elementi caratteristici del Sistema preventivo: ambiente giovanile, rapporto di fiducia con gli educatori, gruppi d’impegno, responsabilità dei più maturi, devozione a Maria Ausiliatrice, frequenza ai sacramenti. Che in quest’ambiente Giuseppe percorresse il suo personale cammino di santità come “emulo di Domenico Savio” lo rivelano, tra l’altro, alcune pagine dei suoi “Taccuini riservati”: “Piuttosto morire che offenderti col più piccolo peccato”; “O mio buon Gesù, dammi volontà perseverante, ferma, forte, perché io possa perseverare nelle mie sante risoluzioni e possa raggiungere il mio sommo ideale: la santità che mi sono prefisso. Io posso e devo essere santo”. Gli stessi taccuini documentano la sua adesione personalissima a Gesù Cristo che va maturando con gli anni, in particolare dopo la professione religiosa: “Gesù, voglio essere fedele veramente e fedelmente servirti [...]. Mi dedico totalmente a Te [...]. Fa’ che io non mi allontani mai da Te e che fino alla morte sia fedele a Te e mantenga il mio giuramento: ‘Piuttosto morire che offenderti con un minimo peccato’ [...]. Io devo essere un Salesiano santo, come fu santo il mio padre don Bosco”. Da giovane studente di filosofia nel 1930 aveva scritto, con il sangue, su una pagina del diario, dopo aver disegnato una piccola croce: “Soffrire ed essere disprezzato per te, Signore [...]. Con piena conoscenza, con volontà decisa e pronta a tutte le conseguenze, abbraccio la dolce croce della chiamata di Cristo e voglio portarla fino alla fine, fino alla morte”. Chiese di farsi Salesiano e nel 1927 entrò nel noviziato di Czerwinsk. Seguirono gli anni del ginnasio e della filosofia a Cracovia (1928-1931), il tirocinio che coronò con la professione perpetua (1934) e il corso teologico con l’ordinazione sacerdotale nel 1938.
Fu subito chiamato dall’ispettore don Adam Ciéslar come suo segretario e in tale ruolo resterà nei successivi tre anni. Lo si descrive come un confratello che si distingueva per una sorprendente padronanza di sé e per un’eccezionale stima verso ciascun fratello: servizievole, gentile, sempre sereno e soprattutto molto laborioso. Nella misura in cui il suo dovere glielo consentiva, si dedicava allo studio delle lingue (italiano, francese, tedesco); leggeva con interesse la vita del fondatore e preparava scrupolosamente le sue omelie. Gli impegni di segretario ispettoriale non gli impedirono il ministero pastorale. Lo si trovava sempre disponibile per prediche e conferenze, specie negli ambienti giovanili e per il servizio delle confessioni. Dotato di uno spiccato senso musicale, avendo anche una bella voce, curava in parrocchia un coro giovanile per conferire solennità alle celebrazioni liturgiche.
Sarà proprio questa zelante attività sacerdotale tra i giovani a metterlo in vista e a motivare l’arresto da parte dei nazisti il 23 maggio 1941, insieme con altri undici salesiani. Imprigionato provvisoriamente a Cracovia nel carcere di Montelupi, dopo un mese fu trasferito insieme con altri nel campo di concentramento di Os´wie˛cim. Qui vide uccidere quattro confratelli. Tra questi il suo direttore don Giuseppe Swierc e il suo confessore don Ignazio Dobiasz. Divenuto il Nº 17350, trascorse un anno di lavori pesanti e di maltrattamenti nella cosiddetta “compagnia di rigore”, dove pochi riuscivano a sopravvivere. Fu deciso il suo trasferimento a Dachau, ma all’ultimo momento fu fermato in circostanze ben descritte dai testimoni che hanno deposto nel suo processo e sono riportate anche nel processo di beatificazione del padre Massimiliano Kolbe. Egli rimase nella “Compagnia di rigore” nel campo di Os´wie˛cim.
Il campo di prigionia divenne per lui il campo “pastorale”. Unì la sofferenza a una solerte attenzione ai compagni, soprattutto per confortare la loro speranza e sostenere la loro fede. Riportiamo alcuni fatti riportati da alcuni testimoni: “I capi del SK [Strafkompanie – Compagnia disciplinare], sapendo che Kowalski era prete, lo tormentavano ad ogni passo, lo battevano a ogni occasione, lo mandavano ai lavori più pesanti”. Eppure egli non smise mai di offrire ai suoi compagni tutto il servizio sacerdotale possibile: “Nonostante un severo divieto, assolveva dai peccati i moribondi, confortava gli scoraggiati, sollevava spiritualmente i poveretti in attesa della sentenza di morte, portava clandestinamente la Comunione; riusciva persino a organizzare la Santa Messa nelle baracche, animava la preghiera e aiutava i bisognosi”. “In quel campo di morte nel quale, secondo l’espressione dei capi, non c’era Dio, riusciva a portare Dio ai comprigionieri”. Il suo atteggiamento interiore ed esteriore durante tutto questo calvario si manifesta in una lettera ai genitori: “Non vi preoccupate per me, sono nelle mani di Dio [...]. Voglio assicurarvi che sento ad ogni passo il suo aiuto. Nonostante la presente situazione, io sono felice e totalmente tranquillo; sono persuaso che dovunque mi trovi e qualsiasi cosa mi succeda, tutto proviene dalla paterna Provvidenza di Dio, che in modo giustissimo dirige le sorti di tutte le nazioni e di tutti gli uomini”.
Due fatti parlano eloquentemente del suo eroico zelo pastorale. Il primo è l’organizzazione della preghiera giornaliera nel campo: “La mattina appena usciti dagli isolati ci raccoglievamo, ancora nel buio (alle ore 4,30), formando un piccolo gruppo di 5-8 persone, presso uno dei blocchi, in un posto meno visibile (la scoperta di un simile raduno avrebbe potuto costarci la vita), per recitare le preghiere che ripetevamo dopo di lui. Il gruppetto andò man mano aumentando, malgrado che ciò fosse molto rischioso”.
Il secondo avvenne il 2 giugno 1942. Giunge un ordine dal comando supremo dei campi di concentramento: sessanta sacerdoti devono lasciare Oswiecim e raggiungere Dachau. Lì c’è un altro campo di sterminio, dove sono ammassati tremila sacerdoti. Don Giuseppe Kowalski è tra i selezionati per il viaggio. I sessanta sacerdoti sono stipati in un bagno per la disinfezione prima della partenza. La scena che si svolge l’ha raccontata sotto giuramento don Corrado Szweda: “Eravamo radunati nel bagno, in attesa del turno per la disinfezione. Entra Palitsch, il più spietato dei carnefici di Os´wie˛cim. Si accorge che don Kowalski ha qualcosa nella mano: ‘Che cosa hai?’, domanda bruscamente. E senza attendere risposta gli colpisce con la frusta la mano, da cui cade una corona del Rosario. ‘Calpestala!’, grida. Don Giuseppe rimane immobile. Viene immediatamente separato dal gruppo e trasferito alla compagnia di disciplina”.
Molto più tragiche le vicende del suo ultimo giorno di vita, il 3 luglio 1942. Ogni gesto e ogni parola di quelle ultime 24 ore rivestono un significato particolarmente importante. “Finito il lavoro, narra uno dei testi, i compagni condussero al blocco il sacerdote Kowalski, maltrattato dai capi. Dopo il suo ritorno io ho trascorso insieme con lui gli ultimi momenti. Ci rendevamo conto che dopo l’assassinio dei compagni della nostra branda (dei cinque, tre erano stati già uccisi) adesso toccava a noi. In quella situazione il sacerdote Kowalski si raccolse in preghiera. A un certo momento si rivolse a me dicendo: ‘Inginocchiati e prega con me per tutti questi che ci uccidono’. Pregavamo in due, ad appello terminato, a tarda sera sulla branda. Dopo un po’ venne da noi Mitas e chiamò don Kowalski, che scese dalla branda con animo tranquillo, poiché era preparato a questa chiamata e alla morte che ne sarebbe seguita. Mi diede la sua porzione di pane che aveva ricevuto per la cena dicendo: ‘Mangialo tu, io non ne avrò più bisogno’. Dopo queste parole se ne andò coscientemente alla morte”.
Prima dell’epilogo, che sarebbe avvenuto nel primo mattino del 4 luglio, nella giornata del 3 c’era stata la messinscena di un’azione sacra, in cui si rivela tutta l’eroica dignità di un vero testimone della fede. I capi erano furenti nella loro smania di uccidere. Delle crudeltà si facevano allegri spettacoli. In questo giorno non riposarono neppure durante l’intervallo per il pranzo, continuando i loro sadici divertimenti della mattina. Ora annegavano gli uni nel vicino scolo di letame, ora precipitavano altri dall’alto terrapieno al fondo di un immenso canale che stavano scavando, pieno di fango argilloso. Quelli dei massacrati che gemendo non erano ancora spirati venivano spinti in una grossa botte senza fondo, botte che serviva di rifugio ai cani. Li costringevano a imitare i cani abbaiando e poi, versata per terra della minestra, obbligavano quei moribondi a leccarla dal suolo. Uno degli sbirri urla ridendo con voce rauca: ‘E dov’è quel prete cattolico? Dia loro la sua benedizione per il viaggio all’eternità’. Intanto altri carnefici buttavano don Kowalski dall’alto nel fango per divertirsi. Ora, appena somigliante a un uomo, lo conducono alla botte. Nudo, tratto fuori dallo stagno fangoso, con i resti di cenci dei calzoni addosso, tutto grondante da capo a piedi di quel vischioso impasto di fango e letame, incalzato a furia di bastonate, venne alla botte dove giacevano moribondi gli uni, morti gli altri. I carnefici percuotendo don Kowalski, schernendolo come prete, gli ordinarono di salire sulla botte e impartire ai morenti ‘secondo il rito cattolico, l’ultima benedizione per il viaggio al paradiso’.
Don Kowalski s’inginocchiò sulla botte e segnatosi incominciò con voce alta, quasi ispirata, a recitare lentamente il Pater noster, l’Ave Maria, il Sub tuum praesidium e la Salve Regina. Le parole eterne di verità racchiuse nelle divine strofe della preghiera domenicale impressionarono vivamente i prigionieri che di giorno in giorno, di ora in ora aspettavano qui una morte spaventosa, simile a quella di coloro i quali, ora in un canile, lasciavano questa valle di lacrime, sfigurati a tal punto da perdere le sembianze di uomini. Rannicchiati nell’erba, non osando alzare la testa per non esporci agli sguardi dei carnefici, gustavamo le penetranti parole di don Kowalski come cibo materiale di una pace desiderata. In quella terra imbevuta del sangue dei prigionieri, penetravano ora le lacrime sgorgate dai nostri occhi, mentre assistevamo al sublime mistero, celebrato da don Kowalski sullo sfondo di quella macabra scena. Annidato vicino a me sull’erba, un giovane studente di Jaslo (Taddeo Kokosz) mi sussurrò all’orecchio: ‘Una simile preghiera, il mondo non l’ha ancora udita... forse neppure nelle catacombe si pregava così’”.
Da un’attenta ricostruzione risulta che egli fu ucciso nella notte tra il 3 e il 4 luglio 1942. Fu annegato nella cloaca del campo. Lo attesta sotto giuramento il suo comprigioniero Stefano Boratynski che vide il suo cadavere tutto sporco abbandonato davanti al blocco della cosiddetta “compagnia punitiva”.
Il decreto di martirio è stato pubblicato il 26 marzo 1999; beatificato il 13 giugno 1999 da Giovanni Paolo II.

PREGHIERA PER LA CANONIZZAZIONE

Dio Padre, che hai suscitato nel beato Giuseppe, sacerdote,
il desiderio della santità e la prontezza nell'offrire la vita per l'amore di Cristo,
concedi a noi, per sua intercessione,
la grazia di essere fedeli alla nostra vocazione
e di amare la croce, che è via di salvezza.
Ti supplichiamo di voler glorificare questo tuo servo
e di concederci, per sua intercessione,
la grazia che ti chiediamo...
Per Cristo nostro Signore. Amen.


Fonte:
www.sdb.org


Note:
Per segnalare grazie o favori ricevuti per sua intercessione, oppure per informazioni, rivolgersi al Postulatore Generale della Famiglia Salesiana: [email protected]

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Aggiunto/modificato il 2017-07-05

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