Era nato il 25 ottobre 1902 a San Colombano al Lambro (Milano) da umile famiglia. Presto il dolore lo visitò con la morte del padre in giovane età, del fratello Mario, ancora ragazzo, e dell’altro fratello, Andrea, a soli 20 anni.
Un grande educatore
Con notevoli sacrifici, la mamma sostenne Carlo nella sua ascesa al sacerdozio, fino alla sua Ordinazione il 5 giugno 1925. A soli 23 anni, celebrata la Prima Messa, Don Carlo Gnocchi è una figura esile, ma entro il suo velo di carne vibra un’anima ardente, un vero innamorato di Gesù e, per suo amore, traboccante di carità per i ragazzi e per i poveri. Ha la passione che tutti vivano di Gesù, fino alla sua pienezza, nella sua vita divina della grazia santificante.
Per i primi anni, svolge il suo ministero a Cernusco sul Naviglio, poi a San Pietro in Sala, a Milano, seguendo soprattutto i ragazzi nella loro crescita. È confessore, “padre spirituale” appassionato della salvezza delle anime, predicatore e conferenziere, già scrittore, per arrivare a molti, il più possibile, con la luce del Vangelo.
Nel 1935, è chiamato a 33 anni a diventare direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga di Milano, per la formazione della gioventù. Studia, legge, prega molto, affidandosi soprattutto alla Madonna, perché sa che soltanto un vero alter Christus potrà far crescere Gesù nelle anime. Affida ogni ragazzo alla Madonna, affinché sia Lei a modellarlo a immagine di Gesù. I suoi ragazzi sono affascinati da Lui, dalla sua opera.
Li guida e li dirige in confessionale, nei colloqui con i singoli, in incontri e dibattiti, nelle numerose lettere che scrive, mediante gli articoli e i libri che pubblica e diffonde. È trasparenza di Dio.
Nello strazio della Guerra
Il 10 giugno 1940, l’Italia entra in guerra. Don Carlo vede i suoi giovani partire per diversi fronti d’Europa, dove le follìe dei potenti li scaraventano con mani omicide. Chiede di essere arruolato come cappellano militare per essere vicino ai suoi ragazzi.
Con il suo altarino da campo, su cui offre ogni giorno il Sacrificio di Gesù nella Santa Messa, con il suo cuore sacerdotale, sarà presente accanto ai suoi alpini in Albania, in Grecia, in Croazia. Un’esperienza lacerante, ma perché tutto quel dolore, perché la morte di tanti innocenti? Solo lui, sacerdote di Cristo, alla luce della fede, sa rispondere, consolare, incoraggiare.
Nel 1942, viene la terribile compagna in Russia: Don Carlo è ancora là con i suoi soldati a condividere tanto strazio, la tragedia immane. A lui, prima di chiudere gli occhi, dilaniati dalle armi, i soldati morenti, affidano gli ultimi ricordi per le loro mamme, le spose, i figli. Quando Don Carlo ritorna in Italia, riprende il cammino per adempiere “le commissioni” lasciategli dai suoi alpini caduti sui fronti di guerra. Si rende conto con i suoi occhi che anche i bambini “hanno fatto” la guerra, soffrendo l’indicibile: feriti, affamati, ammalati, non curati, orfani. Sì, certamente, non l’ha voluto Iddio, sono stati i prepotenti a causare la tragedia, ma perché tanto dolore, perché il dolore degli innocenti?
Don Carlo ha una lunga lista di indirizzi con cui risale le valli del Tagliamento, la Val d’Intelvi, la Valtellina... presso le famiglie dei suoi caduti; incontra e consola le mamme, le spose rimaste vedove, i bambini orfani. Ma che cosa può fare per i piccoli?
Per gli orfani e i mutilatini
Con l’aiuto della Provvidenza di Dio, ad Arosio (Como), presso la Casa dei grandi Invalidi, offre ospitalità a un certo numero di orfani. Presto avrebbe dato vita a una casa tutta per loro. Pubblica un libro: Restaurazione della persona umana (Edizioni La scuola, Brescia), il cui titolo dice tutto. Lui, d’ora in poi, sarebbe vissuto per restaurare nei piccoli, tanto più se sofferenti, la dignità della persona umana «alla statura di Cristo» (cf. Ef 4,13).
Una sera di luglio, una mamma gli porta il suo bambino privo di una gamba. Non sapendo più come provvedere, lo adagia per terra e gli dice: «Don Carlo, lo affido a lei». E se ne va via di corsa. Don Carlo si avvicina al bambino, si inginocchia accanto a lui e lo guarda con sconfinato amore, come quando guarda Gesù sulla croce durante la Santa Messa. I due si guardano e si comprendono. Durante la notte, dopo aver aiutato il bambino ad addormentarsi, tenendogli la mano, scende in cappella e chiede a Gesù-Ostia, l’Amico che non manca mai: «Che faccio? Tu devi aiutarmi. Tu ci devi pensare!».
In quell’istante, si vede circondato da una folla di bambini, senza mani, senza gambe, ciechi, sordi, sfigurati, bisognosi di tutto, soprattutto di amore... e lui avrebbe provveduto come un papà e una mamma insieme. Quanto sangue innocente! In giro per l’Italia, Don Carlo stende la mano. Nel 1948, fonda la “Pro infanzia mutilata”, la Federazione dei piccoli mutilati, per assistere le innocenti vittime della guerra, con una prima modesta sede a Milano, e l’altra a Roma, poi in altre città.
In quei suoi istituti – vere famiglie – i mutilatini non devono essere commiserati, perché «essi sono l’aristocrazia del dolore, sono dei privilegiati: Dio ha scelto loro, come già ha scelto il Figlio suo Gesù, per la redenzione dell’umanità». L’Italia si mobilita per la sua opera. L’11 febbraio 1953, nasce l’opera grandiosa “Pro Juventute”, con 8 efficienti Istituti, tra cui quello di Parma per le cure e la riabilitazione dei mutilati. Don Carlo è segnato dentro da quel mondo di sofferenza: quanto dolore innocente!
Lacrime come perle
Tutta quella sofferenza vissuta senza senso – Don Carlo lo sa – è un tesoro preziosissimo che va perduto. Tocca a lui dare senso e letizia a quell’umano dolore innocente. Per questo insegna ai suoi mutilatini a soffrire e a offrire in unione con Gesù che soffre sulla croce e ripresenta il suo Sacrificio nella Santa Messa, ogni giorno, in espiazione dei peccati del mondo e per la salvezza degli uomini. Un giorno, lo spiega a chiare lettere ai suoi bambini che piangono: «Queste vostre lacrime devono diventare perle, angeli miei!». «Ma com’è possibile?». «Prepareremo una cassettina e in essa lasceremo cadere delle perle vere, preziose. Quando uno di voi deve, per il suo bene, subire nella clinica di Parma un’operazione chirurgica, lasciarsi ingessare un arto, farselo tirare in trazione, soffre. Ebbene questa sofferenza fisica non deve andare perduta: bisogna offrirla al Signore, senza piangere, senza gridare. Quando uno di voi sarà riuscito con coraggio, pensando a Gesù in croce, che ha sofferto più di qualsiasi altro sulla terra, a sopportare senza lamenti la sua operazione, avrà diritto a mettere nella cassettina una perla vera».
«E poi, e poi?», chiedono quegli innocenti in croce. «Tra un anno, conteremo le perle, le porteremo a un orefice che le userà per formare il nostro distintivo, poi lo doneremo al Papa come segno della nostra sofferenza accolta, con amore, con Gesù sulla croce».
I piccoli gli promettono che l’avrebbero fatto. Un giorno d’estate del 1950, tutti i mutilatini di Don Gnocchi si recano in udienza dal Santo Padre Pio XII. Il dono più bello che gli portano è la spilla preziosa che rappresenta il monogramma di Cristo, il “Chi-Ro”, in cui la “X” è fatta da due stampelline incrociate e allacciate da una corona nobiliare, a indicare che «la sofferenza innestata su Cristo forma una cosa sola con Lui, il Cristo mistico, e soltanto in questo modo può ricevere la corona del merito e del premio».
Il simbolo era stato fatto interamente con le perle della sofferenza, del coraggio, e dell’offerta dimostrati dai bambini. Don Carlo spiega al santo Pontefice Pio XII il significato del gioiello, come è nato, e conclude: «I miei piccoli hanno offerto il loro dolore per Lei, Santo Padre, per la Chiesa, per la salvezza di tutte le anime». Negli occhi di Pio XII brillano delle grosse lacrime di tenerezza e di riconoscenza, che tutti vedono. Nella sala delle udienze si sente singhiozzare: la sala ora è come un altare. Anche Pio XII, percorso da un fremito, piange.
Il Crocifisso è il significato
Quando tornano nei loro istituti, i piccoli si sentono davvero dei privilegiati. Dio li ha scelti perché portino nelle loro carni la sofferenza redentrice: come Gesù ha tanto sofferto sulla croce fino a morire affinché gli uomini siano liberi dal peccato e ricchi della Vita divina della grazia santificante, così anch’essi stanno soffrendo affinché la Redenzione di Gesù raggiunga ogni uomo. È il grande significato del dolore innocente: occorre spiegarlo a tutti.
Don Carlo matura l’idea di una Federazione europea dei giovani mutilati di guerra. Il 27 agosto 1953, Pio XII riceve in udienza 120 mutilatini di Europa, guidati da Don Carlo. Un ragazzo francese offre al Papa una targa con lo stemma della Pro Juventute, il monogramma di Cristo, con inciso il motto: “Cum reciditur, coronatur” (Quando si è immolati, si è incoronati). E gli dice: «Questo significa che noi vogliamo unire i nostri sacrifici a quello di Gesù sulla croce, affinché essi possano servire a un mondo migliore e ricevere così la corona che il Vangelo ha promesso a coloro che soffrono per Gesù».
Pio XII gli risponde: «La vostra sofferenza unita a quella di Gesù, vi condurrà tutti al più grande amore per Lui e a una tenera carità per i vostri fratelli».
Ora Don Carlo pensa alle cure e alla riabilitazione dei ragazzi colpiti dalla poliomielite. Il 12 settembre 1955 a Milano viene posta la prima pietra del centro-pilota per i fanciulli poliomielitici. Ma ormai Don Carlo è stremato dalla fatica e dal cancro che lo rode allo stomaco. Viene a fargli visita mons. Montini, Arcivescovo di Milano, il suo Arcivescovo, che a vederlo piange. Don Carlo, morente, commenta: «Piange perché sono uno che muore».
Il 28 febbraio 1956, va incontro a Dio. Ora per le sue virtù cristiane e sacerdotali eroiche, Don Carlo è stato beatificato dalla Chiesa, e la sua memoria è al 25 ottobre.
Proprio il giorno del funerale esce un piccolo libro che lui ha scritto con le sue ultime forze, come il suo testamento, che condensa tutta la sua vita e il suo sacerdozio, la sua opera in mezzo alla gioventù nelle parrocchie, all’Istituto Gonzaga, di cappellano militare, soprattutto in mezzo al dolore dei piccoli e dei più giovani, per dare a ogni lacrima, a ogni goccia di sangue sparsa, il significato e il valore più alto. Il libro si intitola Pedagogia del dolore innocente (Edizioni La scuola, Brescia 1956), ed è la risposta, in Gesù Crocifisso, al grande perché del dolore, così come il beato Don Carlo ha fatto e noi abbiamo narrato. Risposta che spazza via in un soffio il cosiddetto “testamento biologico”. Ogni cristiano, prima di pronunciarsi sul dolore della vita e della morte, dovrebbe riflettere sull’infinito valore della sofferenza unita alla Croce di Cristo e fidarsi di Lui che nelle ore più dolorose gli sarà accanto come medico, medicina e Salvatore. La risposta non è mai la morte, ma la vita in Cristo.
Autore: Paolo Risso
L’infanzia
Carlo Gnocchi nacque a San Colombano al Lambro, in provincia di Milano ma molto vicino a Lodi, il 25 ottobre 1902. Il padre, Enrico, era un marmista, mentre la madre, Clementina Pasta, lavorava come sarta e si occupava della casa. Fu battezzato cinque giorni dopo la nascita coi nomi di Carlo Fortunato Domenico nella chiesa parrocchiale del suo paese. Alla morte del padre, ammalato di silicosi per via del suo lavoro, Carlo si trasferì con la famiglia a Milano, dove ricevette il sacramento della Cresima presso la parrocchia di Sant’Eufemia il 19 maggio 1910. Nell’anno scolastico 1914-1915 fu allievo dei Salesiani.
La vocazione al sacerdozio e la formazione
Avvertita la vocazione al sacerdozio, nel 1915, anno in cui perse il fratello Andrea (un altro fratello, Mario, era invece morto nel 1909) entrò nel Seminario della diocesi di Milano, nella sede di Seveso. Tre anni dopo passò alla sede di Monza per frequentare il liceo, ma per ottenere il diploma di maturità dovette sostenere l’esame nel liceo statale Berchet di Milano. Nel 1921, quindi, passò al Seminario maggiore nella sede di corso Venezia a Milano.
Venne ordinato sacerdote il 6 giugno 1925 dall’arcivescovo di Milano, il cardinal Eugenio Tosi. Celebrò la Prima Messa lo stesso giorno a Montesiro di Besana Brianza, il paese dove trascorreva le vacanze ospite di una zia e dove la madre si era trasferita quando lui era entrato in Seminario.
I primi incarichi
Il primo incarico di don Carlo fu quello di vicario parrocchiale incaricato dell’oratorio (o coadiutore) della parrocchia di Santa Maria Assunta a Cernusco sul Naviglio, ma già l’anno successivo ebbe una nuova destinazione: San Pietro in Sala, a Milano. Nel 1928 don Carlo fu nominato dal cardinal Tosi cappellano dell’Opera Nazionale Balilla. Il successore, il cardinal Alfredo Ildefonso Schuster (Beato dal 1994), gli diede cinque anni dopo l’incarico di assistente spirituale del GUF (Gruppo Universitari Fascisti) di Milano.
Fu sempre il cardinal Schuster a chiamarlo ad assumere il ruolo di direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga di Milano, diretto dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Lì ebbe l’opportunità di conoscere meglio l’uomo inquadrato nella società, i giovani, ma anche le loro famiglie e l’ambiente, affinando così la sua passione e la sua sensibilità come educatore.
Cappellano degli alpini
Il 10 giugno 1940 l’Italia entrò ufficialmente nel secondo conflitto mondiale. Don Carlo si arruolò volontariamente come cappellano militare del Battaglione degli Alpini «Val Tagliamento», che partecipò alla campagna di Grecia. Dopo il congedo, riprese il suo impegno al Gonzaga, ma sentiva di dover andare dove ci fosse più bisogno di lui: scrisse quindi più volte al cardinale Schuster perché acconsentisse alla sua partenza per il fronte russo. Infine, nel mese di luglio 1942, poté partire per la campagna di Russia, come cappellano degli Alpini della Divisione Tridentina.
La prima idea di “un’opera di carità”
La disastrosa ritirata del gennaio 1943, che vide la morte di numerosi soldati, lo colpì profondamente, spingendolo a riflettere sul significato e sul valore della sofferenza degli innocenti. Maturò il lui il desiderio di provvedere all’assistenza degli orfani dei suoi alpini: così, tornato in patria, cominciò a cercarli personalmente.
Decorato con medaglia d’argento al valor militare, negli anni 1944-45 partecipò alla Resistenza. Incarcerato a San Vittore, fu liberato dieci giorni dopo per l’intervento del cardinale Schuster.
Nel 1945 lasciò l’incarico di direttore spirituale all’Istituto Gonzaga, prendendo quello di assistente ecclesiastico degli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, restandovi tre anni.
Mentre l’arcivescovo pensava di destinarlo a una parrocchia, don Carlo andava concretizzando quello che, dal fronte russo, aveva scritto al cugino Mario Biassoni: «Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di Carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i Suoi poveri. Ecco la mia “carriera”».
Nascita della Fondazione Pro Juventute
Nell’aprile 1945 don Carlo venne nominato direttore dell'Istituto Grandi Invalidi di Arosio (in provincia di Como). L’8 dicembre dello stesso anno aveva appena terminato la celebrazione della Messa, quando il portinaio gli annunciò che gli era stato portato un bambino, Bruno Castoldi, il cui padre era morto in Russia. A lui si aggiunsero, nel corso della giornata, altri ventisette orfani. L’arrivo di un bambino di otto anni, Paolo Balducci, che aveva invece perso una gamba per lo scoppio di una bomba, lo orientò definitivamente verso l’accoglienza di quei piccoli sofferenti.
Per coordinare meglio l’attività dell’istituto di Arosio verso i cosiddetti mutilatini, don Carlo istituì la «Federazione Pro Infanzia Mutilata», che il 26 marzo 1949 fu ufficialmente riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica. Nel 1951 l’istituzione cambiò denominazione in «Fondazione Pro Juventute» e, due anni dopo, riconosciuta come Ente Morale.
Don Carlo si fece propagandista itinerante in Italia e all’estero per le sue istituzioni, che ormai si erano ramificate, aumentando con ritmo veloce, in Lombardia e in altre regioni italiane. Fu anche scrittore fecondo di spiritualità, educazione, pedagogia.
La malattia, l’ultimo dono e la morte
Ai primi di novembre 1955, mentre visitava il Centro Pilota di Roma, don Carlo si sentì male. Sulle prime i medici pensarono che fosse un esaurimento, ma quando fu ricoverato alla clinica Columbus di Milano emerse la verità: aveva un tumore allo stomaco, con metastasi diffuse ai polmoni. Una domenica di febbraio mandò a chiamare il professor Cesare Galeazzi, direttore dell’ospedale Oftalmico di Milano, per chiedergli quello che definì «un grande favore»: dopo la sua morte, le sue cornee dovevano essere espiantate, per ridare la luce degli occhi a uno dei suoi ragazzi. Non molti giorni dopo morì, nel pomeriggio del 28 febbraio 1956, a 53 anni.
L’operazione di espianto ebbe successo e destò molto clamore: si era agli albori della cultura dei trapianti d’organi, che in Italia non erano ancora disciplinati per legge. I beneficati furono Silvio Colagrande e Amabile Battistello, l’uno rimasto privo della vista a causa di un incidente, l’altra cieca dalla nascita.
La fama di santità e il processo di beatificazione
I funerali furono celebrati nel Duomo di Milano il 1° marzo 1956 dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI e Beato, con un’imponente partecipazione di popolo. Durante i funerali, un mutilatino, Domenico Antonino, fu portato al microfono e disse: «Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo». Era solo la prima attestazione pubblica di una buona fama che, col passare degli anni, non venne meno.
Il nulla osta per l’avvio della causa di beatificazione di don Carlo Gnocchi è giunto il 5 gennaio 1987: già il 6 maggio del medesimo anno fu aperta, a Milano, la fase diocesana del processo, conclusa il 23 febbraio 1991 e convalidata il 29 ottobre 1993. La “positio super virtutibus” è stata trasmessa a Roma nel 1997.
Fu ottenuto parere positivo circa l’esercizio delle virtù eroiche sia dai consultori teologi, il 22 ottobre 2002, sia dai cardinali e vescovi membri della Congregazione vaticana per le Cause dei Santi, il 3 dicembre dello stesso anno. San Giovanni Paolo II autorizzò quindi, il 20 dicembre 2002, la promulgazione del decreto con cui don Carlo Gnocchi era dichiarato Venerabile.
Il miracolo e la beatificazione
Come presunto miracolo per ottenere la beatificazione fu preso in esame il caso di Sperandio Aldeni, artigiano elettricista e alpino bergamasco. Il 17 agosto 1979 era sopravvissuto a una scarica elettrica altrimenti mortale, invocando proprio don Carlo Gnocchi. Il processo sull’asserito miracolo venne quindi aperto il 22 ottobre 2004 e concluso quasi tre mesi dopo, il 19 novembre; fu convalidato il 6 maggio 2005.
La giunta medica della Congregazione per le Cause dei Santi diede parere favorevole circa l’inspiegabilità dell’evento il 5 luglio 2007. L’opinione fu confermata dai consultori teologi il 4 novembre 2008 e dai cardinali e vescovi della Congregazione il 13 gennaio 2009. Infine, il 17 gennaio 2009, papa Benedetto XVI ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui l’evento prodigioso era da attribuirsi all’intercessione del Venerabile Carlo Gnocchi, aprendo quindi la strada alla sua beatificazione.
Il 25 ottobre 2009, nella stessa piazza Duomo che aveva visto i suoi funerali, don Carlo Gnocchi veniva ufficialmente posto alla venerazione dei fedeli. Il rito di beatificazione è stato presieduto da monsignor Angelo Amato (oggi cardinale) come inviato del Santo Padre, all’interno della celebrazione eucaristica presieduta dal cardinal Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano.
Il culto del Beato Carlo Gnocchi
La memoria liturgica del Beato Carlo Gnocchi, per la diocesi di Milano, è stata fissata al 25 ottobre, giorno del suo compleanno e anniversario della beatificazione.
Nella primavera del 2009, poche settimane dopo l’annuncio della beatificazione, la Fondazione, che nel frattempo aveva preso il nome di Fondazione Don Carlo Gnocchi onlus, ha avviato la costruzione di una nuova chiesa a lui dedicata, adiacente al Centro Santa Maria Nascente. La cerimonia della posa della prima pietra si è svolta il 2 marzo 2009 alla presenza del cardinal Tettamanzi, che ha pure consacrato la chiesa il 24 ottobre 2010. Il 27 novembre dello stesso anno l’urna con i resti del Beato, già portati in piazza Duomo nel corso del solenne rito di beatificazione, sono stati definitivamente traslati ai piedi dell’altare della nuova chiesa.
Il 28 febbraio 2012, nel cinquantaseiesimo anniversario della morte, il cardinal Angelo Scola, arcivescovo di Milano, ha ufficialmente eretto la chiesa del Beato Carlo Gnocchi come santuario diocesano, dove è anche stata aperta una delle porte del Giubileo straordinario della Misericordia. Accanto al santuario, nell’area della vecchia cappella del Centro, è stato allestito un museo per approfondire la vita e l’opera del suo fondatore.
La Fondazione Don Gnocchi oggi
La Fondazione, istituita dal Beato Carlo Gnocchi per mutilatini e poliomielitici, ha ampliato nel tempo il suo raggio d’azione, curando non solo bambini e ragazzi disabili o affetti da malattie congenite e acquisite, ma anche pazienti di ogni età che necessitano di riabilitazione neuromotoria, cardiorespiratoria e pneumologica, anziani non autosufficienti, malati oncologici terminali, pazienti con gravi cerebrolesioni o in stato vegetativo prolungato.
Autore: Emilia Flocchini
È il “Santo dalla penna nera”, questo è il suo soprannome: un “prete alpino” tra gli alpini dispersi nella gelida steppa, sulle sponde del fiume Don, in Russia, che promette di tornare in patria e di prendersi cura dei bambini rimasti orfani. Carlo Gnocchi nasce a San Colombano al Lambro (Milano) nel 1902. Suo padre Enrico, modesto marmista, a causa del suo lavoro insalubre, muore quando Carlo ha tre anni. La mamma Clementina Pasta, rimasta sola con tre bambini da sfamare, si trasferisce a Milano dove lavora come sarta. Carlo decide di diventare sacerdote (1925). Appassionato, pieno di entusiasmo, i suoi primi incarichi in due parrocchie milanesi, Cernusco sul Naviglio e San Pietro in Sala, lo vedono impegnato con i giovani. Li educa, li ascolta, sta loro vicino, diventa amico delle loro famiglie. Sempre a Milano, segue i giovani studenti dell’Istituto Gonzaga, dell’Istituto Schiapparelli e dell’Università del Sacro Cuore.
Quando scoppia la Seconda guerra mondiale, Don Gnocchi decide di seguire il destino dei suoi ragazzi. Vuole condividere difficoltà e pericoli. Nel 1942 parte per la Russia con gli alpini della “Tridentina”. È una disfatta immane. Gennaio 1943: gli alpini fuggono dal freddo che arriva a toccare i quaranta gradi sotto zero. Pochissimi si salvano. Il sacerdote si dimostra coraggioso: sta vicino ai suoi ragazzi incurante del pericolo, ma si sente impotente di fronte alla mancanza di bende, cibo e coperte. Intorno a lui solo morte. Raccoglie dagli zaini degli alpini, sepolti dalla neve, fotografie e indirizzi, con la promessa di prendersi cura dei loro bambini. Anche Don Carlo rischia la vita, ma una slitta lo trova quasi assiderato, portandolo via dall’inferno di ghiaccio.
Carlo torna in Italia con un solo pensiero: mantenere la sua promessa. Attraversa campagne, colline e montagne, con un motorino, alla ricerca dei poveri orfanelli dei caduti in Russia. Li accoglie ad Arosio (Como) e poi in una struttura più grande a Cassano Magnano (Varese). Le richieste di assistenza aumentano sempre di più anche da parte di bambini mutilati dai bombardamenti. Arrivano da tutta Italia, ma lo Stato ha altre emergenze di cui occuparsi in un Paese distrutto. Così Don Carlo organizza una raccolta fondi e apre collegi in Lombardia e altre regioni.
Nel 1952 fonda l’associazione Pro Juventute. Nel 1956 il “Padre dei mutilatini” o il “Don Bosco di Milano”, come viene chiamato, getta le basi di un centro di riabilitazione a Milano, vicino allo stadio San Siro. Non ne vede la conclusione poiché nello stesso anno si ammala e muore, a Milano, non prima di aver offerto le sue cornee a due mutilatini rimasti ciechi che, dopo il trapianto, riacquistano la vista. Oggi la “Fondazione Don Carlo Gnocchi” ha più di venti istituti di riabilitazione in Italia e assiste migliaia di disabili di ogni età, persone colpite da patologie invalidanti e anziani non autosufficienti; inoltre è impegnata in attività di ricerca scientifica, formazione e in progetti di solidarietà nei Paesi in via di sviluppo: «Amis, ve raccomandi la mia baracca» è stata la sua ultima raccomandazione.
Tra i suoi libri più famosi, citiamo il commovente Cristo con gli alpini, scritto nel 1943, che racconta la tragica ritirata di Russia (Mursia 2008). Il beato oggi riposa nella chiesa a lui dedicata, annessa al Centro Santa Maria Nascente, presso la sede milanese della sua fondazione.
L’esempio di Don Carlo Gnocchi è quanto mai attuale: ancora oggi, purtroppo, nel mondo, tanti bambini rimangono mutilati dai bombardamenti, vittime innocenti della millenaria barbarie umana, perpetrata da uomini nemici della pace.
Autore: Mariella Lentini
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