Galeotto è stato il libro sulla vita di San Francesco, che lo zio vescovo gli regala per la Cresima. È così, infatti, che Alpinolo Ildebrando Umberto Maupas, si innamora di San Francesco e di Madonna Povertà, lui, figlio di famiglia aristocratica, discendente della nobiltà francese trapiantata in Croazia. Il suo ingresso nel convento di Kosljun non è però accompagnato dalla marcia trionfale: né capito né amato, dopo i primi voti è costretto a tornare a casa, perché i superiori lo ritengono inadatto alla vita religiosa, un po’ per la salute fragile, ma soprattutto per il suo carattere, giudicato “pericolosissimo e di grande volubilità”. Non gli è facile “rifarsi una vita” fuori dal convento, perché lo accompagna ovunque una mancanza di senso e un vuoto interiore che non gli danno pace, anche se riesce a trovar subito lavoro nella Guardia di Finanza. Sogna di poter tornare in convento, ma neppure l’intercessione dello zio vescovo riesce ad ottenergli la riammissione. Ci riesce invece un suo vecchio professore, l’unico frate che lo aveva capito, e al giovane Alpinolo viene data una seconda possibilità, questa volta nel convento di Fucecchio, in Toscana. Ricomincia il secondo noviziato e, di convento in convento, arriva a quello del Colle di Covignano, presso Rimini, dove viene ordinato prete l’8 dicembre 1990. Di qui lo spediscono a Parma, dove resterà per tutta la vita, tanto da essere ancor oggi conosciuto come padre Lino da Parma. Lo accompagna fin dall’infanzia una malattia agli occhi, per cui da un occhio non ci vede più e dall’altro poco; in compenso, il suo cuore “vede” molto bene i bisogni dei fratelli e batte ininterrottamente per loro. Lo chiamano “il frate dei morti”, perché sono suoi i funerali della povera gente, di quelli che non hanno nessuno. Li va a cercare nei quartieri più malfamati e fatiscenti di Parma, dove neanche le guardie hanno il coraggio di girare e dove i preti non sono graditi; solo per lui fanno un’eccezione, perché in quelle catapecchie padre Lino non va a chiedere o a riscuotere, ma a portare. Dalle capaci tasche del suo saio tira fuori tozzi di pane, dolci e medicinali, tutto quanto riesce a recuperare dalla carità dei ricchi. In convento lo sorvegliano a vista e sono obbligati a mettere sotto chiave la dispensa e il guardaroba, per salvarle dai continui “saccheggi” di padre Lino. Che accetta molto volentieri gli inviti a pranzo dei benestanti, solo perché riesce a far scivolare in una capace borsa quanto gli portano in tavola o quanto vede avanzato sulle tavole altrui, che subito va a distribuire nei tuguri, scegliendo di preferenza quelli in cui ci sono dei bambini o dei malati. E i commercianti di Parma gli lasciano “far la spesa” nei loro negozi, naturalmente senza pagare il conto, perché di soldi quel frate non ne ha mai, dato che tutto distribuisce non appena riceve. Se non va da loro, perché non può andare contemporaneamente da tutti, sono i poveracci che lo vanno a cercare in convento, creando scompiglio tra i confratelli, ormai rassegnati a sapere che, in barba ad ogni clausura, nella cella di padre Lino venga a dormire qualche poveraccio, raccattato nelle sere d’inverno per strada, al quale naturalmente cede il suo pagliericcio e la coperta, mentr’egli si accuccia sul nudo pavimento. Per questo tirano un sospiro di sollievo quando viene nominato cappellano delle carceri e vi si trasferisce, mentre lui non fa una piega ad adattarsi al suo nuovo alloggiamento: una cella del tutto simile a quella degli altri detenuti, recluso fra i reclusi. Che sono allergici ai preti ed a quanto sa di chiesa, ma non a padre Lino, perché da lui si sentono amati. Si spende infatti per migliorare le loro condizioni carcerarie, per addolcire e umanizzare le guardie, per trovare un lavoro quando escono dal carcere, addirittura portando un neonato in carcere, perché il padre detenuto lo possa conoscere. Arriva ad infiltrarsi nei cortei anticlericali per sedare le risse e calmare gli animi: tanto lui è “il frate più buono che ci sia” e nessuno oserebbe toccarlo neppure con un dito. Il 14 maggio 1924, dopo una giornata dal ritmo sostenuto come sempre, viene stroncato da un infarto all’interno del pastificio Barilla, dov’è andato a cercar lavoro per uno dei suoi tanti disoccupati. Devono portar la salma all’interno del carcere, per l’ultimo abbraccio dei suoi detenuti, che gli preparano la bara con le loro mani, mentre tutta Parma si ferma per salutare quel frate, che seppur spettinato, mal rasato e dal saio logoro e stinto, era “fortemente indiziato di santità”.
Autore: Gianpiero Pettiti
Non era nato a Parma, ma di questa città e dei suoi abitanti, diventò l’apostolo della carità di Cristo; il padre, il benefattore, il consolatore; tanto che è identificato come padre Lino da Parma.
Figlio di Giovanni Maupas, discendente di un’illustre famiglia francese a cui appartennero uomini di Stato e principi della Chiesa e di Rosa Marini di Avezzano, attrice e ballerina di successo, che abbandonò la carriera artistica per dedicarsi alla famiglia, Alpinolo Maupas (questo il suo nome) nacque a Spalato il 30 agosto 1866, ultimo dei 10 figli della coppia dalmata.
Fece i suoi primi studi a Spalato, poi a Zara dove si era trasferito nel 1879 con tutta la famiglia. Tre anni dopo sentì la chiamata di Dio allo stato religioso e il 30 settembre 1882 prese l’abito francescano nel convento di Capodistria con il nome di Pietro; fatto il noviziato stette nel convento di Kosjun fino al 1885, quando fu dimesso dall’Ordine (forse la sua vocazione non gli era ben chiara); per un certo tempo fu nelle guardie di finanza, ma poi convinto di avere la vocazione religiosa, fece domanda di poter essere riammesso nell’Ordine.
Il superiore dell’epoca Luigi da Parma lo riammise, mandandolo in Toscana per ripetere il noviziato a Fucecchio (Firenze). Prendendo di nuovo l’abito francescano, ebbe il nome di Lino, fece la professione nel 1889 e dopo vari spostamenti per lo studio, fu considerato adatto per le missioni in Albania e quindi ancora chierico, fu assegnato il 16 maggio 1889 a Scutari.
Ma qui fu colpito da un male agli occhi e dovette rientrare in Italia, sconsigliato dai medici di ritornare in Albania a causa del clima non adatto alla sua vista e così rimase nella Provincia Francescana di Bologna.
A Rimini si preparò al sacerdozio e il 30 novembre 1890 fu ordinato sacerdote dal vescovo di Forlì; nel gennaio 1892 fu destinato a Cortemaggiore, dove restò per 18 mesi, infine nel giugno 1893 fu trasferito a Parma dove rimase fino alla morte.
A Parma visse 31 anni diventando l’apostolo della città, che al suo tempo era molto povera, con vie strette e sconnesse, ricettacolo di persone sospette, con osterie buie e malfamate, specie nella Parma Vecchia, detta anche Oltretorrente, mentre la Parma Nuova si distingueva col suo bellissimo Battistero.
Padre Lino Maupas venne destinato al vecchio convento del 1500 annesso alla Chiesa dell’Annunziata, uno dei monumenti più belli della città, denominata dagli abitanti “Duomo di Oltretorrente”, di cui divenne cappellano per affiancare il parroco.
Ricoprì per sette anni quest’ufficio, che gli diede l’opportunità di frequentare gli abitanti del borgo, suscitando un interesse generale per la sua persona e per la sua opera caritatevole e organizzativa; bambini, giovani, anziani, poveri, ammalati, infelici, orfani abbandonati, furono oggetto della sua instancabile attività, nelle strade, nelle case; alla porta del suo convento era continuamente richiesto per ogni tipo di aiuto sia materiale, sia spirituale.
Padre Lino aveva qualcosa di diverso dagli altri frati; aveva un modo di concepire la carità al quale la sua comunità di religiosi non era abituata; per aiutare i suoi poveri compiva anche piccoli furti in convento e varie volte arrivava in ritardo alle preghiere e atti comunitari.
Il 1° luglio 1900 fu nominato cappellano del carcere di S. Francesco di Parma, con sua grande gioia, così poteva avvicinare tanti suoi protetti, perché molti dei detenuti facevano parte fuori dal carcere, di quella variegata umanità dolente e insofferente, spesso ribelle e malavitosa, che padre Lino aveva conosciuto nei sobborghi della sua parrocchia della SS. Annunziata.
Sin dal suo ingresso nel carcere fu accolto calorosamente dai carcerati che gli dimostrarono affetto e lui: “ L’ho sempre detto che sono tutti buoni; disgraziati si, ma cattivi no!”. Volle che fosse avvisato di ogni arrivo, così da essere alla porta del carcere per accogliere i nuovi detenuti sin dal primo giorno.
Lavorò molto fra loro, seguendo la storia di ognuno, facendo da tramite con le guardie e con i giudici; si preoccupò di trovare un lavoro a quanti uscivano dal carcere; organizzò la visita del vescovo di Parma, il futuro beato Guido Maria Conforti, come pure del suo predecessore mons. Francesco Magani, per celebrare con i detenuti il precetto pasquale.
Durante la sua permanenza a Parma, avvennero varie esplosioni sociali, violenze, ‘rivolta dei poveri’, cortei contro i padroni che opprimevano gli operai, tentativi di ribellione soffocati con la forza; i frati stavano rinchiusi impauriti nel convento, solo padre Lino era fuori dalla mattina alla sera, per cercare di calmare i rivoltosi; il suo intervento servì a salvare la chiesa dell’Annunziata dalle fiamme, che la folla impazzita ed aizzata dagli anticlericali, voleva appiccare come fece con la chiesa dei Carmelitani, anche qui l’intervento di padre Lino servì a salvare la vita dei monaci rifugiati sul campanile.
Parma subì tre rivolte popolari ed operaie, nel 1898, nel 1907 e nel 1914 e in tutti gli episodi padre Lino correva trafelato da un capo all’altro della città per calmare gli animi, soccorrere i feriti, assistere gli arrestati, essere presente ai processi fatti anche a Lucca, spesso con la sua testimonianza riuscì a farli assolvere dalle gravi imputazioni; divenne ancor di più la luce confortevole dei detenuti, che avrebbero fatto qualunque cosa per lui.
Nel 1910 ebbe l’incarico di cappellano del riformatorio per ragazzi ‘Lambruschini’, distante da Parma tre chilometri; anche qui si prodigò ulteriormente con quelli che considerava “i suoi ragazzi”; conosceva le loro storie di precoce delinquenza, i retroscena familiari, le miserie morali da cui provenivano; li portava fuori per gite ed escursioni, li seguiva nelle officine di lavoro, li incontrava dialogando nei cortili.
Pregava in ogni momento libero e con intensità, specie nei luoghi più appartati; percorreva incessantemente km. su km. a piedi scalzi anche con la neve; organizzava pellegrinaggi per il santuario mariano di Fontanellato; seminava fra il popolo tanti prodigi di amore e di carità, che è impossibile raccontarli qui, sia per il numero, sia per la diversa varietà di essi.
La sua intensa attività fra il popolo, lo mise in difficoltà con la sua posizione di religioso francescano obbligato alla vita conventuale, che proprio non riusciva più a fare; così i suoi superiori, consci dell’importanza della sua opera sociale, per tranquillizzarlo, gli ottennero il ‘Breve’ di esclaustrazione, così con questo vero gesto comprensivo e senza condanne, padre Lino poteva frequentare il convento e portare l’abito francescano, facendo nel contempo una vita praticamente per la strada e negli Istituti.
Per un mese fu anche cappellano militare, nel 1915 a Padova, nell’ambito della Prima Guerra Mondiale, ma la direzione del carcere di Parma lo richiese nuovamente, qui padre Lino Maupas organizzò il centro “Pro Patria” per raccogliere offerte, oggetti, indumenti, da spedire ai prigionieri, come anche le lettere dei parenti.
La sua intensa attività con i piedi sempre in moto, le mani, le braccia, le spalle sempre cariche, le continue preoccupazioni, lo condussero ad una vecchiaia precoce; da tempo soffriva di una malattia cardiaca che non curava, per non fermarsi.
E fu sempre mentre si prodigava a trovare un lavoro ad un disoccupato con famiglia, che raggiunto a piedi lo stabilimento Barilla, mentre lo raccomandava alla moglie del titolare assente in quel giorno, padre Lino si accasciò morendo dolcemente, era il 14 maggio 1924, aveva 58 anni.
Già in vita era stato ammirato come novello s. Francesco, ai suoi funerali partecipò tutta la città, accompagnandolo al cimitero; i carcerati vollero costruire con le loro mani e a loro spese la bara occorrente.
Il Comune di Parma gli ha riservato un chiostretto e un recinto per la sua monumentale tomba nel cimitero della Villetta. La causa per la sua beatificazione fu aperta il 23 ottobre 1948; è stato dichiarato venerabile il 26 marzo 1999.
Autore: Antonio Borrelli
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