La santità è un po’ un “vizio” di famiglia: santi (normali, non da calendario!) sono i genitori, terziari francescani, che mettono al mondo tredici figli, ne tirano su otto, ne donano tre alla Chiesa, educandoli tutti alla solidarietà e ad un’autentica vita cristiana, di cui essi sono i primi maestri; santa (ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa nel 2004) è la decima figlia, quella Gianna che nel 1962 preferì la propria morte all’aborto. Adesso alla gloria degli altari è avviato un altro figlio, Enrico, che vestendo il saio cappuccino ha voluto prendere i nomi dei genitori, Alberto e Maria, e per il quale, nel 2008, è iniziato il processo di beatificazione. Nasce a Milano il 28 agosto 1916, settimo della nidiata; un po’ la spiritualità francescana dei genitori, un po’ la conoscenza di un cappuccino che sta spendendo la vita in Brasile, lo orientano presto ad essere cappuccino, ma anche medico (perché da papà ha ereditato una gran sensibilità per le sofferenze altrui) con irrinunciabile destinazione il Brasile. Intanto cresce nelle file dell’Azione Cattolica, dedicandosi ai giovani per i quali inventa la formula dei “focolari”, cioè piccoli gruppi che maturano nella fede alla scuola di Gesù e dei santi. Per realizzare il sogno della sua vita la prima tappa è la laurea in medicina, che consegue nel 1942, proprio nell’anno in cui, a pochi mesi di distanza, muoiono prima la mamma e poi il papà. Ed è proprio ai funerali di quest’ultimo che Enrico ed il fratello Giuseppe decidono il loro futuro da preti. Per la sua età, alla caduta del fascismo, per lui si profila una difficoltà in più: il rischio di essere arruolato (anche se tutti sanno che mai accetterebbe di combattere a fianco dei tedeschi) o di essere internato, qualora disertore, in un campo di lavoro. È per questo che si rifugia in Svizzera, cominciando ad esercitare la professione e iniziando gli studi teologici, che gli riesce di ultimare, a guerra finita, nel convento cappuccino di Milano. Ordinato a marzo 1948, alcuni mesi dopo raggiunge il Brasile, come aveva sempre sognato. Si ferma a Grajaú, nel Nord-Est, iniziando subito con l’apertura di un dispensario all’ombra della cattedrale. Per il vescovo di laggiù, l’arrivo di un medico che è anche prete ha lo stesso effetto del cacio sui maccheroni: il monsignore, infatti, da tempo sta sognando di costruire un ospedale e finalmente riesce a sentirlo un po’ più vicino, proprio grazie all’arrivo di don Enrico. Che, manco a farlo apposta, è la persona giusta al momento giusto: ha un fratello ingegnere disponibile al progetto, una rete fittissima di collaboratori e sostenitori che lo aiutano anche finanziariamente, soprattutto una buona dose di intraprendenza e di fiducia nella Provvidenza. L’ospedale è costruito come struttura all’avanguardia, con una sala operatoria che lavora a pieno ritmo e con reparto specializzato in oculistica. A don Enrico hanno insegnato anche a sterilizzare e trattare la placenta, che somministra a dosi precise e con risultati sorprendenti per la cura del diabete, del reumatismo e dell’asma. Dato che la laurea italiana non è riconosciuta in Brasile, torna in università a studiare ancora per la convalida, approfittando anche per specializzarsi in malattie tropicali. Dopo aver realizzato per due terzi il sogno della sua vita, non gli resta che un ulteriore passo: diventare cappuccino. Dopo un anno di noviziato fa il passo definitivo verso l’ideale francescano a 45 anni, nel 1961: già francescano nel cuore, ora sotto il camice bianco indossa anche un saio che ogni anno si fa più liso, con un paio di sandali sempre più sfondati. Con un ritmo di vita massacrante, si dedica senza risparmio ai malati, specie se poveri e trascurati dagli altri. Ogni sabato parte dal suo ospedale verso le varie comunità che gli sono assegnate, con l’indispensabile per curare a domicilio, non solo il corpo ma anche lo spirito, ben sapendo di non essere che “uno strumento nelle mani del buon Dio, l’unico vero medico dell’uomo”. Nel giorno di Natale 1981 la sua intensa attività missionaria è fermata da un ictus cerebrale a seguito del quale il frate buono, umile e premuroso, che il Brasile venera, diventa anche irrimediabilmente silenzioso e impossibilitato a muoversi liberamente. È necessario farlo rientrare in Italia e nella sua casa di Bergamo i familiari lo curano per 20 anni: un calvario accettato e vissuto con la sua consueta semplice serenità, fino al 10 agosto 2001, quando Padre Alberto Maria Beretta si incontra definitivamente con il suo Signore.
Autore: Gianpiero Pettiti
Padre Alberto Beretta - il suo nome di battesimo è Enrico - nacque il 28 agosto 1916 a Milano, rampollo di una famiglia profondamente religiosa, con sentimenti umano-cristiani ammirabili ed eccellenti.
I genitori Alberto Beretta e Maria De Micheli seppero trasfondere nei numerosi figli insegnamenti talmente radicali portandoli alla conquista di valori e carismi che hanno dell'eroico.
Enrico trascorse l'adolescenza e la giovinezza legato da una sincera amicizia con l'ingegnere chimico Marcello Candia. I due si scambiavano pareri ed opinioni sul futuro delle loro vite; entrambi frequentarono il Convento dei Frati Cappuccini di Viale Piave a Milano ed il loro consigliere e guida spirituale fu il famoso padre Genesio da Gallarate.
Più tardi il medico frequentò a Friburgo i primi due anni di teologia e completò gli altri presso i frati cappuccini di Piazzale Velasquez, pure in Milano, mentre il giovane ingegnere decise di farsi missionario volontario presso i padri del PIME di via Monte Rosa.
Concluso il corso teologico il Beretta venne ordinato sacerdote dal Cardinal Alfredo Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, precedentemente era stato destinato alla Diocesi di Grajaù in Brasile, sotto l'obbedienza del Vescovo Mons. Emiliano Giuseppe Lonati, cappuccino. L'ordinazione ebbe luogo il 18 marzo 1948, mentre il viaggio per la nuova diocesi avvenne verso la fine dell'anno.
Il Vescovo di Grajaù, che da tempo coltivava l'idea di costruire un ospedale proprio per essere più vicino e più utile ai suoi diocesani, si valse dell'arrivo del giovane sacerdote e medico per attuare quell'antico suo desiderio e progetto.
La divina Provvidenza intervenne ancora inviando l'ingegnere Francesco Beretta, fratello del medico e l'aiuto dei missionari padre Francesco da Chiaravalle e padre Agostino Scanzi.
Si iniziarono così i lavori per la costruzione della grande e umanitaria opera. Tutto si svolse normalmente, anche se con difficoltà, mentre don Enrico decise di farsi cappuccino entrando, per breve tempo, nel noviziato della Custodia Provinciale del convento di Guaramiranga nel Cearà, professando in data 16 agosto 1961 e diventando padre Alberto.
E così ritornò a lavorare nella Diocesi in cui si era inserito: medico, sacerdote e, adesso, anche nella veste di frate minore cappuccino con la possibilità di attendere più efficacemente ai bisogni del popolo affidato alle sue cure. Affinché la sua professionalità fosse riconosciuta anche dallo Stato del Brasile, per padre Alberto fu necessario convalidare la laurea italiana sostenendo vari esami presso la facoltà di Porto Allegre applicandosi con impegno e gran forza di volontà.
É evidente che il fatto lo obbligò ad una maggiore preparazione e responsabilità, ma alla fine ottenne ottimi risultati con l'aiuto anche della Grazia che gli venne dall'alto. In più ebbe la possibilità di approfondire lo studio delle malattie tropicali, in Europa a volte poco considerate.
Da tutto ciò nacque il vantaggio di conoscere più profondamente l'ambiente in cui avrebbe svolto la sua attività, guadagnando inoltre la stima della classe medica locale.
Chiusa questa parentesi il missionario ritornò al campo del suo apostolato e qui trovò che la costruzione del nuovo ospedale procedeva a pieno ritmo e che la struttura era pronta, almeno in buona parte, per un immediato funzionamento.
Assistette e provvide alla sistemazione della sala operatoria per possibili ed urgenti interventi chirurgici ed egli stesso fu anche medico-chirurgo molto abile, ben formato da studi e corsi di specializzazione.
Non gli sfuggì però che le finalità principale della sua missione erano l'evangelizzazione e l'annuncio della Parola di Dio.
Ed è proprio in questi intenti che maggiormente si applicò, dando ali al suo zelo di apostolo in terra brasiliana. Fu veramente ammirabile e la sua figura divenne carismatica.
Nelle prime ore del pomeriggio di ogni sabato partiva per le diverse località che da lui sarebbero state assistite non solo per la salute del corpo, ma anche per la salvezza dell'anima dei redenti. E qui si snodavano le celebrazioni eucaristiche e l'amministrazione dei sacramenti, con attenzione estrema per malati ed infermi.
Nel descrivere e ricordare ciò che dirò più avanti, offenderò certo l'umiltà e la riservatezza che caratterizzarono la sua persona.
Gli chiedo scusa, ma non posso nascondere la mia ammirazione nei suoi confronti e ciò che da vicino ho potuto constatare nei tre anni vissuti come superiore e parroco della parrocchia dove ha costruito l'ospedale. Le sue opere possano testimoniare e glorificare il Padre celeste che sta nei cieli.
Come medico egli curò, accolse ed operò gli ammalati gli infermi, ricevuti in ospedale o visitati da lui direttamente nelle loro case.
Egli era sempre disponibile in qualsiasi giorno, per tutte le 24 ore, incurante dei fenomeni atmosferici, da solo o accompagnato, a volte a piedi o a dorso di mulo, aiutato dalle suore cappuccine, da infermiere e volontarie da lui avviate alla professione.
Padre Alberto camminava con un passo affrettato, a volte svelto e ben deciso. Chi lo osservava con attenzione era in grado di notare che si trattava di un animo fiducioso e generoso. Tutti lo salutavano con chiari segni di riverenza, di rispetto e direi di venerazione. Non era raro udire espressioni di questo tipo : "Frei Alberto è un santo!".
Un medico russo, conosciuto a Rio de Janeiro, gli insegnò la tecnica della sterilizzazione e della preparazione della placenta, sostanza vitale, espulsa dal corpo della madre dopo il parto. Questa era raccolta dalle levatrici e posta in contenitori appositamente preparati e consegnati a lui in breve tempo.
Durante la notte poi, invece di riposare, si sacrificava nel preparare le dosi adatte all'età del paziente e suddivise negli otto giorni, per la cura del diabete, del reumatismo, dell'asma e malattie consimili.
I risultati erano spesso immediati già dalle prime applicazioni e si nutriva presto fiducia verso la guarigione, particolarmente quando la placenta era applicata nelle fasi iniziali del male.
Un'altra sua specializzazione riguardava la cura dell'organo visivo. Ogni anno, in date e tempi diversi, si assisteva al fatto impressionante della convocazione di persone arrivate da fuori per essere operate all'occhio dalla cataratta o da altri disturbi congeniti, come quello dell'indebolimento del cristallino.
Padre Alberto, previo appuntamento, programmava in grande scala questo incontro.
Preparava i pazienti all'intervento e aiutato da un collega appositamente chiamato dalla capitale dello Stato procedeva all'operazione.
A volte il numero dei pazienti raggiungeva anche le 50 persone ed in questa circostanza l'ospedale subiva una particolare trasformazione. Per affrontare dignitosamente la situazione, infatti, era purtroppo necessario portare nuovi letti nei corridoi e negli altri spazi liberi dell'ospedale.
L'intervento durava da due a tre giorni, soltanto padre Alberto rimaneva ad assistere i degenti sino alla data della loro dimissione.
Egli accoglieva e convocava preferibilmente i poveri ed i meno favoriti dalla sorte.
Circa la cura degli anseniani, padre Alberto, in un primo tempo, li assistette nel villaggio da loro costruito lontano dall'abitato e composto da casupole di fango coperte da foglie di cocco. Li curava anche spiritualmente celebrando per loro la S.Messa, predicando ed amministrando i Sacramenti.
Più tardi, per interessamento del Vescovo Mons. Adolfo Bossi e con il concorso di tanti benefattori, i disagi degli anseniani vennero mitigati con la costruzione di "Vila San Marino" dotata di casette in muratura con servizi igienici, una chiesetta, il refettorio, le cucine e le abitazioni del personale sanitario. In questo luogo, ampliato e migliorato anche dal successore Mons. Valentino Lazzari, gli ammalati furono curati in modo più efficace e molti di loro poterono tornare a casa guariti.
Infine, vale ricordare che nel recinto dell'ospedale c'erano anche due fabbricati con locali e ambienti igienicamente disposti, attrezzati ed adeguatamente isolati per ricevere i malati tubercolotici affetti da malattie contagiose della pelle e con segni della terribile e dolorosa malattia della lebbra.
Sicuramente grande è stata la generosità dei benefattori che hanno aiutato quest'opera, la volontà della Chiesa che l'ha voluta, la dedizione e i sacrifici di chi l'ha fondata e amministrata.
La figura estremamente caritatevole del dott. padre Alberto non solo godette fama nella città di Grajaù dove fu costruito l'ospedale, ma anche presso i medici sia dello Stato del Maranhao, che in tutto il territorio della nazione ed in modo particolare nel sud del Brasile dove lui si recava spesso per i viaggi urgenti ed inerenti l'esercizio della sua professione.
Purtroppo padre Alberto, proprio in uno dei suoi viaggi apostolici di sacerdote, fu vittima di una fatale congestione cerebrale che lo costrinse ad abbandonare definitivamente il suo lavoro di missionario ed evangelizzatore. L'attacco gli paralizzò la lingua e lo rese semiparalizzato ad un braccio ed una gamba.
Portato d'urgenza nella Capitale dello Stato ricevette le prime cure e fu poi trasferito dai parenti nell'ospedale della sua terra d'origine. Dopo una degenza di parecchi mesi presso il Policlinico di Ponte S. Pietro (Bergamo), con il consenso dei superiori, attualmente vive, ormai da 17 anni, nella casa materna, amorosamente curato dal fratello don Giuseppe e dalle sorelle Zita e madre Virginia, sotto la guida del dottor Marcello Odorizi.
Lì continua da infermo ad offrirsi in sacrificio a Dio, pregando e ricevendo inoltre aiuti materiali ed offerte per la conservazione e gestione del suo ospedale "San Francesco d'Assisi" da lui amministrato e tanto amato.
Alcuni mesi prima dell'incidente occorsogli, seguendo l'esempio dell'amico dott. Candia, d'accordo con Mons. Lazzari, allora vescovo di Grajaù, l'ospedale venne donato dalla Prelazia all'Ordine dei padri camilliani brasiliani di San Paolo, i quali si sono inseriti egregiamente, tant'è che l'istituzione è ancor oggi in piena attività e la sua nobile missione è un vero miracolo per quelle regioni lontane, difficili, problematiche e vicinissime alla gigantesca e misteriosa foresta amazzonica.
Oggi, ricordando ancora con nostalgia quell'opera cristiano-umanitaria, padre Alberto si mantiene sereno, sorridente, come quando lavorava in piena attività di sacerdote, di medico e missionario.
É vero Gesù insegna: " Non sappia la tua destra...", ma io grido: "Che tutti sappiano e conoscano la sublime dedizione alla propria vocazione in questo mondo in cui ci sono molte persone mediocri. E gridiamolo dai tetti per far conoscere questi uomini chiamati da Dio a tanto sublime eroismo".
Autore: Padre Paolino Pegurri
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