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Beato Tshimangadzo Samuele Benedetto Daswa (Bakali) Martire

2 febbraio

Mbahe, Sud Africa, 16 giugno 1946 - 2 febbraio 1990

Padre di famiglia, insegnante, educatore e catechista, ucciso il 2 febbraio del 1990, primo martire sudafricano. Con il suo stile di vita e il suo coraggio ha messo in crisi il sistema di credenze della società tradizionale. Un esempio per l’intera società sudafricana. Beatificato il 13 settembre 2015.



I suoi assassini sono a tutt’oggi impuniti e neppure completamente individuati, in compenso è stato beatificato il 13 settembre 2015 come martire: Tshimangadzo Samuele Benedetto Daswa è così il primo beato del Sudafrica.
La sua vita si svolge tutta a Mbahe, circa 150 km a nord di Polokwane, diocesi di Tzaneen, dove nasce il 16 giugno 1946 in seno al clan Lemba, i cui membri sono conosciuti come gli "ebrei neri", quindi in una famiglia non cristiana. Per la morte prematura di papà, tocca a lui, come primogenito, prendersi cura dell’educazione e dell’istruzione dei tre fratelli e della sorella. Nell’adolescenza si unisce al gruppo dei catecumeni che si raduna sotto un albero di fico, con la guida di Benedetto Risimati, catechista carismatico con una tale influenza sul ragazzo che, quando a 16 anni suonati, chiede il battesimo sceglie il nome di Benedetto, in onore di chi ha accompagnato il suo cammino di fede.
Il lavoro non gli fa paura: gli piace lavorare la terra, continuando insieme ai fratelli la coltivazione del giardino che gli ha lasciato il padre e che in pratica rifornisce di verdura l’intero paese, nel quale i poveri possono andare a comprare senza soldi, mentre i giovani vi possono lavorare per guadagnarsi quanto serve a pagare le spese scolastiche senza gravare sulle loro famiglie. Esigente nel pretendere che ciascuno dia il meglio di sé, giusto fino allo scrupolo perché ad ognuno venga corrisposto il dovuto, Benedetto è soprattutto impegnato sul fronte educativo: maestro elementare e poi direttore di scuola primaria, non si limita alle ore di insegnamento per cui è retribuito, ma sa trasformarsi in guida ed animatore dei giovani nei week-end e nelle vacanze, dotando il villaggio di un campo sportivo ed allenando i ragazzi della squadra di calcio. Non ha paura di sporcarsi le mani anche nei lavori manuali ed ancora oggi tutti lo ricordano mentre con la sua automobile trasporta sassi e ghiaia dal fiume al villaggio per la costruzione della chiesa e della scuola.
Sui 30 anni si sposa con Shadi Eveline Monyai, dalla quale ha 8 figli, per i quali si espone anche al ridicolo, perché sfidando usi e costumi si reca personalmente al fiume a lavare i loro pannolini e aiuta la moglie nelle faccende di casa. Orgoglioso della sua fede, si fa catechista ed animatore della comunità, all’interno della quale gode di una indiscussa autorità, almeno fino a gennaio 1990, quando inaspettatamente gli viene chiesto di pagare il prezzo della sua fede. Nei primi giorni di gennaio, infatti, un nubifragio si abbatte sulla zona e il tetto di molte capanne va a fuoco per una serie di fulmini, che i capi villaggio interpretano come una maledizione frutto di stregoneria. Nel corso di un’animata assemblea si decide così di assoldare uno sciamano, perché con le sue arti magiche individui il responsabile della maledizione e, possibilmente, la allontani dal villaggio, stabilendo di pagarlo con un’autotassazione di 5 rand a testa.
L’unico ad opporsi è Benedetto, perché, spiega, “la mia fede mi impedisce di partecipare a questa caccia alle streghe”, mentre ai compaesani si sforza di spiegare l’origine del tutto naturale di questa anomala caduta di fulmini. Subito guardato con sospetto e schernito per aver rinnegato le tradizioni popolari, gli tendono un’imboscata appena una settimana dopo: alcuni rami messi di traverso sulla strada che deve percorrere lo costringono a scendere dall’automobile, permettendo così l’assalto di un gruppo di compaesani armati di pietre e bastoni. Rincorso e malmenato, riesce a rifugiarsi in una casa, dalla quale tuttavia esce spontaneamente per non mettere a rischio la vita dei proprietari. Bastonato senza pietà, ustionato con acqua bollente e finito a colpi di pietra, raccontano di averlo sentito pregare ad alta voce prima di spirare, mentre i suoi assassini lo schernivano con le stesse parole già udite sul Golgota: “Vediamo se il suo Dio viene ora ad aiutarlo!”.
Ai suoi funerali i sacerdoti indossano paramenti rossi, perché nessuno ha dubbi sul suo martirio e questa convinzione è rimasta inalterata in questi 25 anni. Il che ha permesso un processo-lampo per la sua beatificazione ed un pronunciamento della Congregazione ad appena cinque anni dal deposito della “positio”. Impuniti e perdonati, i suoi assassini ancora oggi si presentano per ottenere aiuti e li ottengono dai figli di Benedetto, “perché, dicono, così avrebbe fatto nostro padre”.

Autore: Gianpiero Pettiti

 


 

Sposo e padre di otto figli, Tshimangadzo Benedict Daswa è il primo martire della fede sudafricano. È stato proclamato beato domenica 13 settembre 2015. Oltre 30mila persone hanno partecipato alla celebrazione eucaristica svoltasi all’aperto a Tshitanini, villaggio nella provincia settentrionale di Limpopo, a pochi chilometri di distanza dal luogo dove Daswa fu ucciso, il 2 febbraio 1990.
«Uomo di famiglia, catechista diligente, educatore premuroso, ha datotestimonianza eroica del vangelo fino all’effusione del sangue: d’ora in avanti sarà chiamato beato», ha solennemente dichiarato il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi e inviato di papa Francesco, che ha presieduto l’eucaristia insieme a vescovi e sacerdoti sudafricani e tanti altri venuti da nazioni limitrofe. Presenti alla celebrazione erano i figli di Daswa, l’ultranovantenne madre e numerose autorità civili locali e nazionali.
In uno stato laico come il Sudafrica, dove c’è libertà di religione e circa l’80% della popolazione si dice cristiana, risulta difficile credere che una persona sia stata uccisa a motivo della sua fede in Gesù. Ma è stata l’incompatibilità con alcune credenze della religione tradizionale africana, più fortemente radicata nelle zone rurali del Sudafrica, che ha portato Benedict Daswa a scontrarsi con le autorità tradizionali.  In particolare, con la loro visione della realtà secondo cui i disastri atmosferici così come le malattie o la morte sono da attribuire sempre alla presenza di spiriti maligni manovrati da esseri umani e mai riconducibili a cause naturali.
Torniamo sul tragico epilogo della vita del primo martire sudafricano. Gennaio 1990: un nubifragio si abbatte sul villaggio dove Benedict abita con la famiglia, e alcune capanne, colpite da fulmini, vanno in fiamme. La gente è spaventata. Il capo-villaggio e i suoi consiglieri decidono di dare la caccia al “colpevole” di tali straordinari fenomeni atmosferici. Scelgono di autotassarsi per pagare lo “stregone” incaricato di identificare il responsabile del sortilegio.
Benedict, che è segretario del consiglio del capo-villaggio, rifiuta di sborsare la somma richiesta, l’equivalente di 50 centesimi di euro. Tenta di spiegare al capo-villaggio e ai suoi consiglieri che fulmini e nubifragi sono fenomeni naturali e che cercare dei colpevoli avrebbe portato sicuramente alla uccisione di persone innocenti. E dichiara che a motivo della sua fede in Gesù non può accettare tale decisione.
2 febbraio. È sera e Benedict, alla guida del suo furgoncino, sta rientrando a casa. A un certo punto è costretto a fermarsi e a uscire dal veicolo per liberare la strada bloccata da rami e grosse pietre. È allora che scatta la trappola: dai cespugli spunta fuori un gruppo di giovani armati che lo colpiscono con bastoni e sassi.
Sanguinante, tenta di salvarsi, rifugiandosi in una capanna poco distante da dove però la padrona lo costringe ad allontanarsi subito perché  assalitori minacciano di dare fuoco alla casa. Incapace di difendersi, si consegna ai suoi assassini che lo finiscono a colpì di bastone.
Questo il prezzo pagato da Benedict per la convinta adesione alla fede cristiana. La sua colpa? Aver messo in crisi un sistema di credenze e aver tentato di minare i fondamenti su cui si regge la tradizionale struttura sociale e religiosa.

In controtendenza
Ma l’intera vita del beato Daswa è stata in controtendenza, anche nei confronti della mentalità patriarcale, e di critica nei riguardi delle superstizioni religiose.
Nato il 16 giugno 1946 nel villaggio rurale di Mbahe da una famiglia non cristiana dell’etnia venda e appartenente al clan dei lemba, chiamati  “ebrei neri” per via di rituali e tradizioni con antichi legami col giudaismo, a 17 anni si converte al cattolicesimo e sceglie Benedict come nome di battesimo.
Per finanziarsi gli studi al college e divenire insegnante, fa le pulizie in un ospedale. Venuto al corrente della sua conversione, il direttore del centro sanitario  intima di abbandonare la fede cristiana pena la perdita del posto di lavoro. Benedict non ha dubbi: accetta di essere licenziato piuttosto che rinunciare alla fede in Gesù.
Diventato insegnante, è prima maestro elementare e poi direttore della scuola primaria nel villaggio di Nweli. Ama coltivare la terra e rifornisce di frutta e verdura la gente del villaggio e dà gratuitamente i prodotti del campo a coloro che sono troppo poveri per pagarli. Appassionato di sport, organizza e allena una squadra di calcio.
Nel villaggio e conosciuto come assiduo lavoratore e persona molto concreta ed efficiente. Con il lavoro delle sue mani, partecipa alla costruzione della scuola locale e acquista un furgoncino per poter trasportare dal fiume ghiaia e sassi con cui costruire la chiesa, per la comunità cattolica. Si impegna attivamente in parrocchia, anima le celebrazioni liturgiche e insegna catechismo.
A 30 anni si sposa con Shadi Eveline Monyai (deceduta alcuni anni fa) dalla quale ha otto figli. Aiuta la moglie nelle faccende domestiche, compito esclusivamente femminile nella tradizione venda.
Il figlio Lufunwo Daswa, che sta completando gli studi universitari per diventare insegnante, conserva di lui la memoria di un padre coscienzioso e pronto ad aiutare gli altri: «Avevo solo 14 anni quando fu ucciso. Era un uomo lungimirante. Voleva che ciascuno di noi figli avesse la possibilità di studiare e si dava da fare affinché tutti i bambini del villaggio potessero frequentare la scuola. In casa era sempre disponibile ad aiutare. Il sabato mattino spesso usciva, fuori per andare a fare legna nella savana e portarla alla mamma. E non era raro vederlo andare al fiume per lavare la biancheria sporca».
Chris Mphaphuli, amico di famiglia, ricorda: «Ciò che faceva in casa era qualcosa che non vedevi fare da altri mariti qui nella nostra zona. Agli uomini, secondo il costume locale, sono riservate certe mansioni e alle donne altre. Ma per Benedict questa distinzione non esisteva. Il suo era un comportamento tanto inusuale Che certuni arrivarono a dire che era “stregato”».

Eroe del vangelo
Di animo generoso, non intendeva conformarsi a tradizioni che gli impedivano di essere di aiuto ad altri, e tantomeno era disposto a cedere a credenze superstiziose. E così, per esempio, si rifiutò di fare indossare ai giocatori della sua squadra di calcio degli amuleti che “assicuravano” la vittoria.
Questo suo modo di vivere gli procurò numerosi nemici che lo condannavano per aver voltato le spalle alla tradizione dei venda e aver abbracciato la mentalità occidentale, in particolare la Fede cristiana. Sono molti però nella comunità locale ad averlo sempre stimato e che sono rimasti traumatizzati dall’efferatezza della sua uccisione.
La celebrazione della beatificazione di Benedict e stata un’opportunità per far conoscere a un pubblico più vasto e alla Chiesa universale il messaggio e la testimonianza di fede del primo martire sudafricano. Lo ha evidenziato il cardinale Angelo Amato nell’omelia: «La beatificazione di Benedict è una benedizione per tutta la Chiesa, per il Sudafrica, per I’Africa. II suo nome Tshimangadzo significa “miracolo” ed egli fu un’autentica meraviglia di Dio. Lo Spirito Santo ha trasformato questo giovane sudafricano in autentico eroe del vangelo. E’ simile ai primi martiri della Chiesa che difesero coraggiosamente la fede, pregando e perdonando i loro nemici».
Monsignor Rodrigues, vescovo della diocesi di Tzaneen, dove Daswa è nato e vissuto, che ha portato a termine la causa di beatificazione iniziata dal suo predecessore, il vescovo emerito Hugh Slattery, commenta: «Benedict visse nello spirito di libertà fondato sulla libertà di Gesù Cristo. La fede in lui lo ha liberato dalla paura della stregoneria, degli spiriti maligni e delle forze oscure. In verità la vita e la morte sua testimoniano che stregoneria e ogni forma di divinazione non hanno senso e sono un peso che rende schiavo Io spirito umano condizionato spesso da paura e ignoranza».
Padre Smilo Mngadi, portavoce della Conferenza episcopale sudafricana, sottolinea il significato della coincidenza di una data storica del Sudafrica: «Il 2 febbraio 1990, a Città del Capo, nell’estremo sud dell’Africa, il presidente de Klerk annunciava la liberazione di Nelson Mandela e dava inizio al nuovo corso della nostra nazione. Nello stesso giorno, nel punto più a nord del nostro paese nei pressi di Thohoyandou, in Limpopo, Benedict Daswa donava la propria vita per liberarci dall’oppressione della stregoneria; causa di guai per la nostra società e il mondo. Egli è un modello di vita per noi che accogliamo per dire insieme a lui: no alla stregoneria, si a Gesù Cristo».

Un santuario
La cerimonia del 13 settembre nello sperduto villaggio di Tshitanini è stata significativa non solo per la Chiesa ma anche per la società sudafricana. Lo ha spiegato in maniera chiara il vicepresidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, anch'egli di etnia venda, rappresentante del governo alla celebrazione. «Il suo coraggioso servizio gli è costato la vita. Possa quest’oggi essere il giorno in cui noi sudafricani ci impegniamo a costruire una società libera da intolleranza, ignoranza e violenza». Nel suo intervento si è espresso contro la pratica della stregoneria, esortando i concittadini a dire no a questa usanza e no a uccisioni rituali e mutilazioni per ottenere salute, soldi e successo. E ha incoraggiato «un dialogo aperto per capire il perché continuano ad esserci uccisioni rituali».
Alle parole del vicepresidente Ramaphosa ha fatto eco Fikile- Ntsikelelo Moya, direttore del quotidiano di Durban ‘The Mercury’: «Al di là del fatto che sia santo o meno, Daswa è un esempio da seguire anche per la società secolare. Egli è un uomo che ha avuto il coraggio delle proprie convinzioni ed e andato incontro a una morte atroce perché si è rifiutato di adeguarsi alla mentalità corrente della società dove il “fan tutti così” non si discute, è un dogma. Tutto ciò ha fatto di lui una persona eccezionale e un modello da seguire per il nostro paese e per il mondo dove molte persone pensano di essere troppo piccole e le nostre azioni troppo insignificanti per avere peso. Tanti, troppi di noi si sono rassegnati all’idea di non avere altra alternativa se non quella di adeguarsi passivamente a ciò che si vede di sbagliato attorno a noi».
La venerazione del nuovo martire è motivo di ispirazione per tanti e darà coraggio alla sparuta minoranza cattolica nella diocesi di Tzaneen che conta soltanto 45mila fedeli su una popolazione di 2,7 milioni di abitanti. «E’ nostra speranza - affermano i vescovi sudafricani in un comunicato - che la beatificazione di Daswa possa contribuire alla rivitalizzazione della fede della gente, affinché si senta incoraggiata a mantenersi salda nella fede di fronte alle difficoltà che deve affrontare nella vita di tutti i giorni».
Il 24 agosto scorso, il corpo di Benedict è stato riesumato dal cimitero di Mbahe. il villaggio dove era nato, per riposare nella chiesetta di Santa Maria Assunta che egli stesso aveva contribuito a costruire a Nweli. In futuro i resti mortali verranno traslati in un santuario che la diocesi di Tzaneen intende erigere. Diventerà un luogo di preghiera e di venerazione dedicate al primo martire cristiano sudafricano. La sua memoria verrà celebrata ogni anno il 1° febbraio.


Autore:
Winnie Graham

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Aggiunto/modificato il 2016-04-02

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