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Beato Vincenzo (Kolė) Prennushi Vescovo e martire

19 marzo

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Scutari, Albania, 4 settembre 1885 – Durazzo, Albania, 19 marzo 1949

Kolë Prennushi, nato a Scutari in Albania durante la dominazione ottomana, fu alunno del collegio francescano della sua città. Entrò nell’Ordine dei Frati Minori il 12 dicembre 1904 col nome di fra Vinçenc e fu ordinato sacerdote il 19 marzo 1908. Scrisse numerose opere di carattere letterario, politico e religioso. Dopo alcuni incarichi di rilievo nella Provincia francescana della SS. Annunziata, fu consacrato vescovo di Sappa e, il 26 giugno 1940, divenne arcivescovo titolare di Durazzo. Mentre la persecuzione religiosa in Albania cresceva, cercò di essere uomo di pace come già durante le insurrezioni contro i turchi, nella sua giovinezza. Condotto al cospetto del presidente Enver Hoxha, rifiutò la sua proposta di essere a capo di una Chiesa nazionale albanese, staccata dalla Santa Sede. Arrestato e imprigionato a Durazzo, fu condannato a vent’anni di reclusione. Morì nel carcere di Durazzo in seguito ai maltrattamenti e alle torture il 19 marzo 1949. Messo a capo dell’elenco dei 38 martiri albanesi, di cui fanno parte altri sei frati francescani, è stato beatificato il 5 novembre 2016 a Scutari.



Vocazione e prima formazione
Kolë (albanese per Nicola) Prennushi nacque a Scutari in Albania il 4 settembre 1885. Alunno del collegio francescano di Scutari, professò i voti religiosi nell’Ordine dei Frati Minori il 12 dicembre 1904, assumendo il nome di fra Vinçenc (Vincenzo).
In seguito venne inviato dai superiori a frequentare i corsi teologici nel Tirolo. Fu ordinato sacerdote il 19 marzo 1908 e celebrò la Prima Messa il 25 marzo seguente.
Dopo l’ordinazione, padre Vinçenc tornò in Albania, dove, da neanche due anni, era stata costituita la Provincia francescana della SS. Annunziata, sotto la guida del croato padre Lovro Mihacevic.

L’Albania sotto l’impero ottomano
Il Paese era ancora sotto il dominio dell’impero ottomano, ma iniziavano a muoversi varie realtà nazionali: dovunque venivano aperti circoli culturali albanesi e si cominciò a pensare a un alfabeto di tipo latino per trascrivere la lingua locale.
Dal 1909, tuttavia, quei fermenti non furono più tollerati dai “giovani turchi”, che avevano preso il potere a Istanbul: proibirono la latinizzazione dell’alfabeto e organizzarono spedizioni militari sulle montagne albanesi. La sollevazione di Scutari e del Kosovo, nel 1910, venne spenta dopo una resistenza durata oltre tre mesi.

Angelo di riconciliazione
Padre Vinçenc aveva fatto pienamente sue le istanze patriottiche, ma aveva anche intuito che i turchi miravano a dividere gli albanesi e di associare tra loro quelli di religione islamica. Cominciò allora a visitare sia i quartieri musulmani, sia quelli cattolici, inviando alla riconciliazione: così facendo, si meritò l’appellativo di “angelo di Scutari”.
Mentre proseguiva il suo apostolato in tal senso, gli ottomani sembravano accettare l’autonomia albanese: dopo una nuova rivolta, nel luglio 1912, l’Albania poteva dirsi libera, ma per poco, contesa com’era tra Grecia, Serbia e Montenegro. Quest’ultimo assediò Scutari e saccheggiò le campagne dei dintorni.

Incarichi di responsabilità e attività letteraria
Intanto, padre Vinçenc predicava instancabilmente la concordia e soccorreva i poveri. Di pari passo, ricevette incarichi di responsabilità in seno al suo Ordine: direttore della stampa di Scutari, rettore di un collegio, guardiano del convento di Scutari. Fu anche apprezzato predicatore e conferenziere.
Molte furono le sue opere letterarie, da quelle di carattere religioso (ad esempio, un libro su san Francesco e uno su sant’Antonio) a quelle su temi politici (come «Nel campo della vera democrazia», edito nel 1922). Nella sua produzione ha ampio spazio anche la poesia, basata sulle tradizioni popolari.

Vescovo di Durazzo
Nel 1926 padre Vinçenc venne eletto padre provinciale e, dal 1943 fu anche amministratore apostolico dell’Albania Meridionale. Mantenne l’incarico di provinciale fino al 19 marzo 1946, quando papa Pio XII lo nominò vescovo di Sappa. Quattro anni dopo, il 26 giugno 1940, fu trasferito alla sede episcopale di Durazzo, di cui prese possesso in un’atmosfera festosa, non solo da parte degli abitanti cattolici.
Ogni estate, monsignor Prennushi si recava in villeggiatura a Delbinist, sul Mar Adriatico, abituale residenza dei vescovi di Durazzo. Tuttavia, a partire dal 1945, le sue non furono semplici vacanze: i comunisti avevano iniziato a limitare la libertà di tutte le religioni, per cui i contadini affluivano sempre di più da lui, così da ascoltare qualche parola di speranza.
In ambito cattolico, le persecuzioni si accanirono contro i francescani e i gesuiti, per le loro opere di consolidamento dell’identità nazionale e della fede, specie dei montanari e delle classi dirigenti. Nel 1945, il nunzio apostolico in Albania, monsignor Leone Giovanni Battista Nigris, cercò di portare la questione da papa Pio XII. Tuttavia, sul punto di rientrare, si vide impedito dal governo, in un esilio di fatto.

Primate dell’Albania martire
Alla morte dell’arcivescovo di Scutari, monsignor Gaspër Thaçi, nel maggio 1946, monsignor Prennushi divenne il Primate della Chiesa albanese. Intanto, mentre cominciavano a giungere le notizie dei primi arresti e delle uccisioni di sacerdoti, cresceva il suo rammarico: «È una vergogna per coloro che sono ancora fuori di prigione», confidò a suo nipote Mikel.
Ben presto fu il suo turno. Una sera, nel gennaio 1947, mentre si trovava insieme al nipote in episcopio, venne raggiunto da alcuni emissari del governo: era convocato a Tirana. Il mattino seguente partì e, da allora, né i suoi amici né i suoi parenti lo videro più. Poco dopo che ebbe lasciato la residenza, gli agenti della polizia segreta saccheggiarono l’ufficio, distruggendo il suo crocifisso di legno; alcuni frammenti vennero conservati dal nipote, insieme ad altri oggetti e a qualche libro.

Al cospetto del dittatore
Giunto a Tirana, monsignor Prennushi venne condotto da Enver Hoxha in persona. Il capo di Stato l’aveva convocato apparentemente per consultarlo sui problemi della Chiesa cattolica in Albania, ma gli rivelò subito i suoi reali intenti: voleva chiedergli di prendere il comando di una Chiesa nazionale, separata da Roma, facendo leva sui suoi ideali patriottici.
Ma la fedeltà al Papa fu più forte dell’amor patrio: l’arcivescovo rifiutò decisamente tutte quelle proposte. A quel punto, il dittatore ordinò di metterlo in prigione e, nei suoi discorsi, non mancò di calunniarlo pubblicamente.

Le accuse e la condanna
Le accuse che vennero rivolte al vescovo furono le stesse mosse ad altri cattolici processati e condannati a morte durante il regime comunista: collaborazionismo con i fascisti, complicità col Vaticano, complotti ai danni del popolo.
Questa fu la sua difesa: «Durante la mia esistenza, non ho mai pensato male o agito verso gli altri. Ho sempre cercato di fare il bene verso tutti, senza discriminazioni». Non servì, comunque, a evitargli la condanna: venti anni di lavori forzati.

Il comportamento in carcere
Fu rinchiuso in una cella di trenta per cinquanta metri quadrati circa, insieme ad altri prigionieri. Non di rado, quando gli veniva chiesto, ascoltava le confidenze dei compagni di cella. Con un profondo senso di fraternità, a volte raccontava episodi personali, ma solo per confortare gli altri. Una pia donna gli consegnava del cibo in più, che prontamente divideva con quanti lo circondavano.
Ad Arshi Pipa, scrittore e saggista incarcerato con lui, raccontò le torture che dovette subire: lo picchiavano con spranghe di legno, oppure lo appendevano, legato mani e piedi, a un gancio che dava sulla porta dei bagni dell’ufficiale della Sigurimi; lo staccavano solo quando era ormai svenuto, «come una mucca nell’affumicatoio», per usare una sua sarcastica espressione.
In un’altra circostanza, fu obbligato a trasportare dei tronchi lungo la collina accanto alla quale si trovava la prigione di Durazzo. Ormai era anziano, aveva sessantacinque anni, e in più soffriva di ernia: eppure, si presentò lo stesso con gli altri detenuti incaricati di quell’incombenza. Loro, per aiutarlo, fecero in modo di lasciargli i tronchi più leggeri, ma faticò molto: cadde più volte e rimase senza fiato, mentre i soldati lo prendevano in giro, usando l’epiteto “parroco” come un’offesa.

La morte
Nel novembre 1948 monsignor Prennushi era grave per una malattia cardiaca: molto di rado lasciava la cella quando gli veniva concesso di uscire nel cortile. Fu quindi mandato nell’ospedale del carcere, che in realtà era una baracca vicina all’ospedale centrale di Durazzo.
Oltre ai problemi cardiaci, i medici riscontrarono che aveva delle crisi d’asma, che lo lasciavano sfinito. Fino all’ultimo sperò di essere liberato, quando, in seguito alla rottura del regime con la Jugoslavia, si diffusero voci di un’amnistia.
Sempre più ammalato, una notte fu udito mormorare: «Ora… posso… comprendere… il “Mehr Licht”… [Più luce!] di Goethe… questa luce… che il poeta cercava all’ora della sua morte… non era certamente la luce… che percepiamo con i nostri occhi di carne». Pochi giorni dopo, morì: era il 19 marzo 1949, l’anniversario della sua ordinazione episcopale.
Il suo corpo fu reso alla famiglia: suo fratello Anton, aiutato da alcuni amici, fabbricò una bara dove lo depose, per poi farlo seppellire di nascosto nella cattedrale di Durazzo. Tuttavia, nel 1967, la sepoltura fu profanata prima di essere chiusa definitivamente; le ossa dell’arcivescovo vennero disperse su una collina. Era una vera e propria “damnatio memoriae”, riservata a chi non aveva voluto diventare uno degli “uomini nuovi” cui mirava il regime.

La beatificazione
L’Ordine dei Frati Minori ha dato altri martiri alla Chiesa in Albania: molti di essi sono compresi nell’elenco dei 38 beatificati a Scutari il 5 novembre 2016. Oltre a monsignor Prennushi, messo a capo del gruppo, si tratta dei padri Gjon Shllaku, Serafin Koda, Bernardin Palaj, Mati Prendushi, Cyprian Nika, Gaspër Suma e Karl Serreqi.


Autore:
Emilia Flocchini

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Aggiunto/modificato il 2016-10-25

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