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Giuseppe Taliercio Laico

Testimoni

Carrara, 8 agosto 1927 – Venezia, 6 luglio 1981

Cresciuto a Marina di Carrara, ingegnere e dirigente dello stabilimento petrolchimico della Montedison di Marghera, Giuseppe Taliercio fu vittima della violenza delle Brigate Rosse. Con la moglie Gabriella aveva condiviso esperienze di vita ecclesiale nell’Azione cattolica, nelle Equipes Notre Dame ed in parrocchia. La sua fede lo ha sostenuto e reso esemplare anche nel momento della prigionia. Nella chiesa parrocchiale della Sacra Famiglia a Marina di Carrara è stata posta una lapide che recita così: “Giuseppe Taliercio martire del XX° secolo. Questa è la Chiesa che gli diede i natali, che gli trasmise i grandi ideali di fede in Dio e dedizione all’uomo per cui visse e fu ucciso. 1927-1981”. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Turigliano a Carrara.



Affondano nell’isola di Ischia le radici di Giuseppe Taliercio. I suoi genitori, Luigi Taliercio e Clorinda Buono, da Ischia si trasferiscono a Marina di Carrara dove, appena giunti, aprono un’attività commerciale di terracotte e prodotti vari. L’8 agosto 1927 nasce Giuseppe. Nonostante le ristrettezze economiche e con enormi sacrifici, la famiglia consente a Giuseppe di studiare, prima al Liceo Scientifico Guglielmo Marconi di Carrara e poi laureandosi in Ingegneria all’Università di Pisa con il massimo dei voti.
Dal matrimonio con Gabriella (1954), con la quale era cresciuto nell’Azione cattolica, nelle Equipes Notre Dame e nella vita di parrocchia, nacquero cinque figli: Elda, Lucia, Bianca, Cesare, Antonio. Il buon rapporto con i sindacati e l’aiuto ai più bisognosi, anche attraverso la “San Vincenzo” aziendale della quale Giuseppe era animatore, avevano caratterizzato la sua direzione dello stabilimento “Petrolchimico” della Montedison di Marghera, del quale gli era stato conferito l’incarico di direttore generale, dopo una brillante carriera come manager. Incarico che gli costerà la vita per essere stato individuato dalle Brigate Rosse quale responsabile delle strategie industriali anti proletarie delle multinazionali imperialiste. Agli occhi dei rapitori poco valse la sua condotta di carità cristiana nei confronti degli operai bisognosi, verso i quali manifestava un concreto interessamento con visite a domicilio e provvedendo in proprio alle eventuali necessità di ciascuno, come attestano diverse testimonianze. Ma i brigatisti furono implacabili, previo sequestro e successivo “processo di rito”. Processo a cui fu sottoposto con inaudite violenze, per estorcergli improbabili confessioni. Giuseppe Taliercio venne ucciso a 54 anni il 5 luglio 1981, dopo 46 giorni di rapimento. Era stato rapito il 20 maggio nella sua abitazione. La sua condotta fu ferma e dignitosa,come testimoniarono i brigatisti al processo.
La sposa Gabriella così racconta il suo perdono degli uccisori del marito a Gigi Moncalvo, due anni dopo l’evento: “Quando qualcuno si meraviglia per il perdono che abbiamo concesso agli assassini di Pino nonostante tutta la crudeltà, tutto l’odio che hanno mostrato e manifestato contro di lui e contro di noi, io e i miei figli rispondiamo in maniera semplice e chiara: la strada del perdono, dell’amore, della bontà è l’unica che Pino ci ha insegnato. Sempre. Lui viveva il discorso del perdono, della non violenza, della necessità che tutti fossero disponibili a pagare per gli altri (…). Ecco, la pace è un grandissimo dono. Ringraziamo il Signore che ce la dona, che ce la donerà, cerchiamo tutti di chiedergliela anche per questi brigatisti, purtroppo si chiamano così. Anche per loro, chiediamo che finisca questa tragedia e che l’uomo ritorni ad amare e a non odiare mai più (…). Forse verrà un giorno, fra dieci anni, se sarò ancora viva, nel quale chi ha ucciso mio marito verrà a chiedermi perdono”.
Gabriella condivide la stessa intuizione di Paolo VI, quando avvertì, nella “Lettera agli uomini delle Brigate Rosse” (21 aprile 1978), che “brigatisti” non è un nome adatto e bisogna dire “uomini” quando parliamo da cristiani. Gabriella aveva sperato in un ravvedimento degli uccisori, che infatti ben presto si avvera. Il 7 maggio 1985, al secondo giorno di interrogatorio al processo alla Colonna veneta delle Br, Antonio Savasta, uccisore di Giuseppe e responsabile di diciassette omicidi, divenuto “collaboratore di giustizia” parla con rammarico del dolore provocato alla famiglia dell’ingegnere, che non aveva voluto costituirsi parte civile e aveva già perdonato durante la celebrazione della messa di addio oltre che in varie interviste. “Chiedere perdono alla moglie di Taliercio è un fatto troppo personale per dirlo in questa sede” affermò l’ex terrorista ai giornalisti durante una pausa del processo. “Ma lei andrebbe dalla signora Taliercio a chiederle perdono?” gli domandarono e lui: “Se potessi uscire da questa gabbia sì, ci andrei”. “Vorrei parlare di una cosa che non c’è nei volantini, nei comunicati delle Brigate Rosse, negli interrogatori – confidò Savasta ai giudici – cioè del rapporto fra me e l’ingegner Giuseppe Taliercio. Vorrei parlare dell’immagine di un uomo forte, dignitoso, coraggioso. Una dignità e un coraggio che io e altri non abbiamo avuto. Alle nostre domande l’ingegnere rispondeva con frasi che parlavano d’amore, parlava di un mondo in evoluzione. Lui era sorretto da una grande fede, io allora non lo capivo. Il suo omicidio è stato un tragico passo”.
In quello stesso anno 1985 Savasta chiese il perdono alla famiglia con una lettera dal carcere alla vedova: “Suo marito in quei giorni è stato pieno di fede, incapace di odiarci. Era lui che tentava di spiegarci quale era il senso della vita ed io non capivo da dove prendesse la forza per sentirsi così sereno. Lo so… questo non le restituirà molto, ma sappia che dentro di me è la parola che portava suo marito che ha vinto. Anche in quei momenti suo marito ha dato amore; è stato un seme così potente che neanche io, che lottavo contro, sono riuscito a estinguere dentro di me… Se non ci foste stati voi a donare per primi questo fiore, io sarei ancora perso nel deserto. Io sono in debito con voi e spero soltanto di colmare questo vuoto restituendo e insegnando ad altri quello che voi avete insegnato a me”.
Significativo e commovente anche l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del trentacinquesimo anniversario dell’omicidio da parte dei terroristi: “Giuseppe Taliercio era un uomo buono. Direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, venne ucciso perchè individuato come un simbolo, attraverso la lente deformata dell’ideologia più ottusa. La sua mitezza e la sua integrità morale scossero anche l’animo dei torturatori, e tuttavia non impedirono le assurde violenze a cui venne sottoposto in quei drammatici giorni di 35 anni fa. Proprio da figure come Taliercio possiamo trarre esempio per rinsaldare i valori della convivenza, della solidarietà, della libertà, in tempi in cui nuove forme di estremismo e di violenza si affacciano minacciose nella nostra società”.
Il programma Rai “La storia siamo Noi”, curato da Giovanni Minoli, ha dedicato una puntata alla vicenda di Taliercio. La sua vicenda è inoltre ripercorsa dal libro di Luigi Francesco Ruffato “Giuseppe Taliercio. Uomo giusto, vittima delle BR”, edito da Marsilio nella collana Teatro. Il giornalista vaticanista Luigi Accatoli ha censito Taliercio nella sua opera “Nuovi Martiri. 393 storie cristiane nell'Italia di oggi” (San Paolo 2000).
Nella chiesa parrocchiale della Sacra Famiglia a Marina di Carrara, frequentata dalla famiglia e dove si erano svolti i funerali il 10 luglio 1981 alla presenza del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, è stata posta una lapide che recita così: “Giuseppe Taliercio martire del XX° secolo. Questa è la Chiesa che gli diede i natali, che gli trasmise i grandi ideali di fede in Dio e dedizione all’uomo per cui visse e fu ucciso. 1927-1981”. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Turigliano a Carrara.


Autore:
Don Fabio Arduino

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Aggiunto/modificato il 2017-08-07

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