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DOSSIER - NOVEMBRE
2002
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«Non chiamatemi santa. Io voglio essere presa sul serio». Chissà se, dall’alto dei cieli, Dorothy Day ha sorriso quando, due anni fa, la diocesi di New York ha dato il via al suo processo di beatificazione. Di certo, nel prendere le distanze dal suo santino postumo, la "santa anarchica" americana esprimeva un atteggiamento che per lungo tempo ha accomunato gli studiosi ad alcune élite di cattolici. «Fino a qualche tempo fa, i santi erano un oggetto di studio secondario per gli storici, mentre sociologi e antropologi studiavano il tema, ma trattandolo come materiale folkloristico», dice la storica Emma Fattorini. «La cultura cattolica più avanzata dopo gli anni del Concilio, poi, ha condiviso più di un sospetto verso queste forme religiose». Fattorini ricorda due eccezioni – don Giuseppe De Luca e Romana Guarnieri – che individuarono nella categoria della "pietà" «una chiave per scoprire la verità interna a queste espressioni religiose, capace di illuminare il pensiero alto e insieme di esercitare una critica verso forme eccessive vicine all’idolatria». Da qualche decennio le cose sono cambiate. Gli studiosi hanno rivalutato la materia. Non l’hanno più relegata a «una dimensione residuale della modernità, destinata a esaurirsi con il completamento del processo di secolarizzazione, ma l’hanno rivisitata in chiave scientifica come elemento significativo di una cultura, come spia di un’epoca e non certo destinata a scomparire con la post-modernità», dice Fattorini. Anche la Chiesa cattolica, con Giovanni Paolo II, ha dato nuova linfa alla schiera di santi e beati. Suscitando ampi consensi a ogni latitudine, insieme a qualche dubbio e perplessità. Partiamo dai numeri. Dal 1588 al 1978, vale a dire dal primo pontefice, Clemente VIII, che istituì la Sacra Congregrazione dei riti e fissò regole stabili per i processi, fino al Papa attuale, sono stati riconosciuti 296 santi e 827 beati. Dal ’78 a oggi, Papa Wojtyla ha proclamato 1.304 beati e 464 santi. Una prolificità definita da alcuni "la fabbrica dei santi". «Più che "fare" santi, verifichiamo la santità, cioè l’atteggiamento virtuoso di un servo di Dio», risponde alla provocazione monsignor Michele Di Ruberto, sottosegretario della Congregazione delle cause dei santi. «Lo studio delle cause dei santi non è una catena di montaggio, ma un esame accurato, scientifico, e delicato, degli atti processuali». Di Ruberto fornisce la spiegazione tecnica per i grandi numeri di questo pontificato: «Già Paolo VI ritenne sufficiente un solo miracolo per proclamare un beato. Così ne tolse uno. E questo Papa lo ha confermato». Così oggi la trafila è la seguente: il "Servo di Dio", titolo dato all’apertura del processo in diocesi, si trasforma in "venerabile" dopo che il Papa ha emesso il decreto di riconoscimento del grado eroico di virtù. Da questo momento al candidato basta un miracolo per diventare "beato", qualifica che circoscrive la venerazione a livello di Chiesa locale o di un Istituto di vita consacrata, e di un secondo per essere indicato "santo", cioè modello universale di virtù. La scelta "tecnica" dei Pontefici ha sbloccato tante cause che erano "in attesa" del secondo miracolo. Uno snellimento che nel futuro potrebbe subire un’ulteriore accelerazione, con la scomparsa del miracolo, attuale sigillo di santità, a favore del solo riconoscimento delle virtù. È quel che pensa lo storico Francesco Scorza Barcellona, esperto di agiografia: «Ma davvero, come sostengono alcuni, il miracolo di guarigione è un fattore necessario al riconoscimento della santità di un futuro santo o beato, al punto che la sua assenza può bloccare la causa anche di persone notevolissime sul piano della spiritualità quale, ad esempio, il cardinale Newman, figura eminente del cattolicesimo inglese dell’800?». Non sappiamo quali saranno gli sviluppi futuri per definire i criteri di santità o, per dirla con un linguaggio più spirituale, per riconoscere una vita pienamente conformata a quella di Cristo. Al momento, però, c’è un altro nodo che attraversa il dibattito: l’accelerazione di alcune cause e non di altre, che sembrerebbero destinate a restare in stand-by in attesa di tempi migliori. A questo proposito, monsignor Di Ruberto parla di polemiche strumentali. La vera svolta, dice, è stata la semplificazione delle procedure grazie al nuovo processo dell’83. «Con quello che risaliva al 1917 le virtù potevano essere discusse dopo 50 anni dalla morte. Adesso, a cinque anni di distanza, si può già procedere alla fase diocesana. A meno che il Papa non decida di seguire una prassi eccezionale». È quanto accaduto per Madre Teresa: morta il 5 settembre ’97, il mese successivo l’arcivescovo di Calcutta Henry D’Souza chiese e poi ottenne dalla Congregazione delle cause dei santi la dispensa dalla norma. Nominato il postulatore, il 26 luglio ’99 si aprì il processo diocesano, chiuso il 15 agosto del 2000, dopo aver ascoltato centinaia di persone e raccolto prove – lettere, testi inediti, testimonianze – a sostegno della santità della candidata. Il processo si è quindi spostato a Roma, dove attualmente ha già superato l’esame dei due organi chiamati a indagare sulle virtù eroiche e sul miracolo, vale a dire la Consulta dei teologi e quella medica. Prima della firma del Papa, che sancirà il decreto di beatificazione, resta da superare l’ultimo verdetto, affidato ai cardinali e vescovi della Congregazione delle cause dei santi. Nella primavera prossima, vale a dire a sei anni dalla morte, Madre Teresa dovrebbe salire sugli altari. Mai un processo di beatificazione ha avuto tempi così brevi. Nella storia, peraltro, non sono mancate canonizzazioni velocissime: a santa Teresa di Lisieux sono occorsi soltanto due anni per passare da beata a santa; tre mesi in più a Giovanni Battista de la Salle e cinque a Francesco Saverio. I "più lenti" a passare dalla morte agli altari, invece, sono stati Giovanna d’Arco, che ha dovuto aspettare 489 anni, e Fernando di Castiglia, 419. Eppure, se il nuovo processo ha il merito di aver snellito le procedure, tra gli addetti ai lavori c’è chi storce il naso e parla di uno scadimento nella qualità. È il caso di Kenneth Woodward, editorialista del settimanale inglese The Tablet e autore del volume Making Saints: «Dal nuovo processo sono stati rimossi alcuni meccanismi di controllo della qualità. L’abolizione della figura dell’avvocato del diavolo ha fatto sì che adesso nessuno ponga dubbi in maniera sistematica e indaghi se un candidato meriti di diventare santo». Woodward racconta di aver letto numerose positio – vale a dire l’intera documentazione presentata a sostegno di una beatificazione – e di aver trovato che in molti casi «alcune domande non sono state approfondite, invece di solide prove sono portati a sostegno pii argomenti e, come nel caso di Escrivà, alcune testimonianze contrarie non sono state presentate nei tribunali ecclesiastici». Un’analisi non condivisa da monsignor Di Ruberto, secondo il quale con la riforma dell’83 il dibattito è stato portato all’interno della "positio", stilata dal postulatore della causa e da una nuova figura, il "relatore". «È quest’ultimo che assume in sé tutte le responsabilità dell’allora promotore della fede, il cosiddetto "avvocato del diavolo", evidenzia il confronto che si è svolto fra gli attori, fa le sue critiche e chiede, se necessario, che si faccia un supplemento di indagine. Il dibattito interno non è abolito, né la procedura è meno scientifica che in passato». Al di là del dibattito in corso sui cambiamenti del processo, una delle domande che ci si pone è se il moltiplicarsi di santi e beati sia una naturale applicazione del modello di "santità per tutti" proposto dal Vaticano II. «Nel proliferare di beati sotto il pontificato di Giovanni Paolo II c’è la giusta esigenza di fare sentire la santità vicina alla gente, non qualcosa di eroico e irraggiungibile», dice Emma Fattorini. «Il Papa vive una spiritualità legata a queste devozioni, in primo luogo quella mariana, le sente vicine in prima persona e ricompone in sé la classica divisione tra la religione per i semplici e quella per i colti. Anche riguardo a questi culti antichi esprime la chiave del suo pontificato: tenere insieme il binomio tradizione-modernità», dice la studiosa. Però gli effetti concreti finiscono in «una inflazione di santi e beati che per accontentare tutti rischia di banalizzare la stessa idea di santità» In che cosa, differirebbe, allora, l’idea del Concilio? «Era un messaggio forte al laicato, una proposta più ampia del modo di intendere l’essere cristiano», dice Sofia Boesch Gajano, docente di storia medievale e autrice di varie pubblicazioni sull’argomento. «Anche se quella conciliare non era una rinuncia all’esercizio del potere di giudicare l’eccezionalità né ad arricchire il santorale cristiano, di certo allargava l’idea di "santità", si potrebbe dire che era più ecumenica. Con Giovanni Paolo II la si riporta saldamente all’interno della Chiesa, con un forte controllo da parte della gerarchia. Basti ricordare la vicenda di monsignor Oscar Romero», dice Boesch Gajano, citando il protrarsi dell’iter della causa dell’arcivescovo di san Salvador. Un martire scomodo, Romero, ammazzato da uomini legati alla dittatura militare, per aver difeso i diritti del suo popolo. La sua causa è partita soltanto 13 anni dopo la sua uccisione, avvenuta nell’80 durante la celebrazione della messa. E ancora oggi incontra molti ostacoli a causa delle resistenze di tanti prelati, ancora vivi, che si scontrarono con "monseñor", che viene già venerato come santo dai poveri del Salvador. Esiste, dunque, secondo Boesch Gajano, una "politica" delle canonizzazioni, che non deve essere intesa necessariamente come qualcosa di negativo: «In certe epoche vengono privilegiati dei criteri per il riconoscimento della santità, piuttosto che altri». La studiosa fa l’esempio della canonizzazione di Maria Goretti, come trasformazione di un drammatico omicidio in martirio. Intorno a questo caso «si è costruito un vero e proprio modello di santità basato sulla difesa della purezza, per contrastare certe forme di modernizzazione, portate dagli americani e reputate sconsiderate dalla Chiesa a metà degli anni ’50». E oggi? Il filo rosso che guida la politica di Papa Wojtyla sarebbe, secondo la studiosa, l’apertura alle diverse forme di vita religiosa e una maggiore attenzione alle Chiese locali. Un nodo di fondo resta comunque irrisolto: l’idea di una santità "comune", che debba essere certificata da un processo istituzionale: «Soltanto chi ha un riferimento istituzionale, comunitario, sociale e anche economico – perché i processi costano – può pensare di salire sugli altari. Insomma, la santità riconosciuta non rappresenta, né percentualmente né dal punto di vista dei modelli, la santità vissuta», dice Sofia Boesch Gajano. Un parere su cui concorda il professor Scorza Barcellona: «Nel corso dei secoli l’ideale e il modo di intendere la santità è cambiato. La vocazione alla santità sul piano teologico è qualcosa che riguarda tutti i cristiani: ma il santo proposto al culto è quello che si distingue per l’eccezionalità della sua vita e delle opere compiute». Si va dal culto dei martiri – centrale nei primi secoli e importante ancora oggi – all’ecclesiastico impegnato nel suo ministero, al religioso, all’asceta che si macera in digiuni e penitenze. Questo peculiare carattere della santità si riassume a partire dal XVI secolo nell’espressione "grado eroico delle virtù". «Nel corso del secolo XX si nota la tendenza a estendere questo principio all’esercizio costante delle virtù cristiane inerenti al proprio stato», sottolinea Scorza Barcellona. È questo nuovo atteggiamento, attestato anche dal Vaticano II, che apre la strada a una riconoscibilità della santità del cristiano comune: «Con lo snellimento della procedura, e nella nuova accezione in cui si intende l’esercizio eroico delle virtù, i vertici della Chiesa possono offrire santi e beati non solo alle varie congregazioni religiose, che aspirano a vedere posto sugli altari il loro fondatore, ma anche a personalità che rappresentano esperienze e stili diversissimi se non opposti». Questa possibilità, dice lo studioso, viene incontro alla necessità della Chiesa, attraversata da un pluralismo di esperienze e tendenze, di accontentare un po’ tutti. Una scelta che, però, ha delle ombre: «In questo modo tutto si relativizza: e non tanto la santità di questo o quel personaggio, ma la sua rappresentatività simbolica per la Chiesa. Gli sforzi di rappresentare simbolicamente una visione globale del cattolicesimo, a un certo livello, annullano il senso stesso di tali gesti. Mi pare che si dimentichi il valore profetico per il presente e per il futuro della Chiesa che dovrebbero avere i personaggi che si portano sugli altari, riducendo il senso della glorificazione a una specie di promozione di personaggi sostenuti dal favore, e dai mezzi, di gruppi grandi o piccoli di fedeli». Scorza Barcellona cita alcuni casi in cui sugli altari sono saliti personaggi molto diversi tra loro: la sconosciuta canossiana sudanese Giuseppina Bakhita, beatificata con il fondatore dell’Opus Dei, e i papi Pio IX e Giovanni XXIII. «Casi del genere si moltiplicheranno a causa della maggiore facilità, e ai tempi più ristretti, con cui oggi è possibile portare a termine le procedure canoniche. Forse rimpiangeremo i tempi lunghi imposti da Urbano VIII, che lasciavano decantare maggiormente i facili entusiasmi e le pressioni indebite». Vittoria
Prisciandaro
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